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Quando Ratzinger disse: i vescovi cinesi sono tutti “validi”

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Vatican Insider - pubblicato il 28/02/17
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La nomina dei vescovi cattolici cinesi rappresenta il «problema cruciale» da risolvere tra Cina popolare e Santa Sede. E i «risultati preliminari» del dialogo in corso tra le due parti fanno «ben sperare» in un «possibile accordo» sui modi con cui verranno scelti e nominati i candidati cinesi all’episcopato. Lo ha scritto il cardinale cinese John Tong, vescovo di Hong Kong, nel saggio da lui dedicato al «futuro del dialogo tra Cina e Santa Sede dal punto di vista ecclesiologico». Alcune settimane dopo la sua pubblicazione, l’intervento del mite cardinale cinese si profila sempre più come un’occasione preziosa – sia pur oscurata e sabotata da più parti – per favorire un salutare salto di qualità nelle analisi sui negoziati in corso tra Cina e Santa Sede. 

Nel suo intervento, con molta pazienza, Tong ha delineato le ragioni e i criteri che guidano la Sede Apostolica nel cercare con tanta premura di risolvere “nodo” sulle ordinazioni episcopali cinesi. Ha rispiegato che la comunione gerarchica tra il Successore di Pietro e i vescovi cattolici cinesi, come con tutti gli altri, ha a che fare con la natura stessa della Chiesa, rappresenta un elemento irrinunciabile della sua stessa cattolicità, e per questo si distingue da pur importanti diritti rivendicati a nome della libertà religiosa. Perché cancellare o impedire qualunque manifestazione della libertà religiosa, per quanto auspicabile e da rivendicare, di per sé non cancella e non snatura la cattolicità della Chiesa di Roma, come documentano due millenni di storia del cristianesimo. 

C’è una premura dominante che spinge la Sede apostolica a verificare la possibilità di un’intesa con le autorità civili cinesi sulla questione delle nomine dei vescovi: l’esigenza di attestare e contribuire a custodire la natura apostolica e sacramentale della Chiesa che è in Cina, e così garantire che nel futuro la legittimità delle ordinazioni dei vescovi cattolici cinesi e l’efficacia salvifica dei sacramenti da loro amministrati non venga più offuscata, nemmeno dalle ombre effimere del dubbio e del sospetto. Questa sollecitudine suggerisce e determina anche le scelte concrete da fare, nel confronto con le autorità cinesi. 

Nell’intesa a cui si sta lavorando – ha suggerito il cardinale Tong – il consenso del Successore di Pietro alle nomine dei nuovi vescovi cinesi viene esplicitamente riconosciuto come condicio sine qua non, elemento imprescindibile e vincolante nella dinamica propria delle ordinazioni episcopali cattoliche. L’accordo prefigurato da Tong nel suo testo rispetta tutto ciò che la Tradizione, sulla base della Sacra Scrittura, ha tenuto, definito, custodito e difeso come essenziale riguardo alla scelta dei successori degli Apostoli

Per prolungare le loro guerricciole, i detrattori prevenuti del possibile accordo tra Cina e Vaticano sono costretti a occultare – a volte con imbarazzante disprezzo dell’intelligenza altrui – un dato emblematico più che evidente: i criteri di discernimento ecclesiale seguiti dalla Santa Sede nelle trattative in corso coi governanti cinesi sono gli stessi che hanno già guidato i Papi e i loro collaboratori chiamati a compiere scelte delicate e concrete davanti a altre, analoghe e più gravi difficoltà riguardanti proprio la Chiesa in Cina. Come avvenne, ad esempio, alla metà degli anni ’80. Quando la Congregazione per la dottrina della fede, guidata dal cardinale Joseph Ratzinger, fu incaricata di verificare se le ordinazioni episcopali illegittime – celebrate in Cina su input degli organismi “patriottici” e senza il consenso del Papa – potevano essere considerate valide, o erano solo parodie sacrileghe messe in atto da una Chiesa ridotta a dipartimento “religioso” dell’apparato civile. Una vicenda del passato che illumina il presente. E che Vatican Insider può ripercorrere, aggiungendo dettagli inediti. 

Un tesoro messo a rischio 

Le “auto-ordinazioni episcopali democratiche”, prive del consenso del Vescovo di Roma e celebrate con la regia dell’Associazione patriottica dei cattolici cinesi, erano iniziate nel 1958. Per lunghi anni, su pressione del potere civile, negli stessi riti di consacrazione venivano inserite formule inappropriate e venivano omesse alcune di quelle consuete, a marcare il fatto che tali ordinazioni episcopali avvenivano senza alcuna “interferenza vaticana” nella vita religiosa del Paese. Dopo il black out coinciso con la parentesi cruenta della Rivoluzione culturale, le ordinazioni episcopali “democratiche” erano riprese nella seconda metà degli anni ’70, quando preti e vescovi tornavano a operare nelle diocesi dopo essere usciti dai campi di rieducazione e dalle forme di lavoro forzato. E in quegli anni alcuni cattolici cinesi dell’area clandestina, quella che rifiutava ogni compromesso con la politica religiosa del Partito comunista, erano tornati a sollevare dubbi sulla validità stessa delle consacrazioni episcopali prive di approvazione papale. 

Se quelle dei vescovi cinesi patriottici non erano vere ordinazioni episcopali, voleva dire che erano invalide anche le ordinazioni sacerdotali amministrate da quei vescovi. Così, si sarebbe negato valore ed efficacia anche ai sacramenti celebrati nelle chiese che il governo cominciava a far riaprire, dopo la fine della Rivoluzione culturale. Si sarebbe dissipato il tesoro di grazia e conforto cristiano a cui tanti fedeli cominciavano finalmente a riattingere con una certa facilità, dopo anni tremendi. 

Successione apostolica ininterrotta 

Nel frattempo, giungevano a Roma anche le lettere inviate da vescovi cinesi ordinati all’inizio degli anni ’80 senza mandato pontificio, che chiedeva in via riservata di essere riconosciuti come vescovo legittimo dalla Sede apostolica. Fu allora che la Congregazione di Propaganda Fide sottopose la questione a Giovanni Paolo II, ricevendo dal Papa stesso l’incarico di studiare ulteriormente il caso «per chiarire i dubbi che potrebbero eventualmente sussistere circa la validità stessa dell’ordinazione». Nel 1983, la richiesta di chiarimento dottrinale era stata presentata alla Congregazione per la dottrina della fede. Il lavoro di chiarimento, coordinato dal rimpianto da Jean Jérôme Hamer, allora segretario del Dicastero vaticano e poi divenuto cardinale, durò due anni e si servì anche dei “voti di tre autorevoli canonisti apprezzati dai Dicasteri vaticani: l’attuale cardinale Josè Saraiva Martins, il gesuita Gianfranco Ghirlanda (poi divenuto rettore della Pontificia Università Gregoriana) e don Antonio Miralles, della Prelatura personale dell’Opus Dei, docente di Teologia sacramentaria e Teologia dogmatica presso la Pontificia Università della Santa Croce. Nel 1985, furono sciolte tutte le riserve: la Santa Sede riconobbe valide le ordinazioni episcopali in Cina, oltre ogni ragionevole (o pretestuoso) dubbio. E ciò avveniva in virtù di considerazioni e argomenti sorprendentemente consonanti con il modus procedendi della Santa Sede nell’attuale fase dei negoziati sino-vaticani

Nella prima metà degli anni ’80, i funzionari e i consultori dell’ex Sant’Uffizio non si misero a misurare i fatti a partire dalla pretesa che tutto fosse “a posto”. Cercarono piuttosto di verificare se nelle ordinazioni episcopali cinesi “patriottiche” si erano realizzate le condizioni essenziali richieste per la validità sacramentale. La Chiesa cattolica riconosce che solo i maschi battezzati possono diventare sacerdoti e vescovi, e solo i vescovi che hanno ricevuto la successione apostolica valida possono a loro volta trasmetterla. A questo proposito, fu verificata minuziosamente tutta la rassegna dei consacranti per ognuna delle ordinazioni illegittime celebrate dal ’58 all’82, per documentare che nelle linee di successione apostolica non c’erano state interruzioni

Rituali “ritoccati”. Ma non nell’essenziale 

La Congregazione per la dottrina della fede, raccogliendo anche i racconti di testimoni oculari, verificò che tutte le ordinazioni dei vescovi “patriottici” cinesi si erano svolte secondo il Pontificale romano, nelle vecchie edizioni in latino, sia prima che dopo la Rivoluzione culturale. La Costituzione apostolica Sacramentum ordinis di Pio XII (1947) aveva indicato come elementi irrinuncibili per considerare valida un’ordinazione episcopale l’imposizione delle mani da parte del vescovo consacrante sull’eletto, e la recita di alcune parole del “Praefatio” (la preghiera consacratoria), quelle della formula «Comple in sacerdote tuo ministerii tui summum, et ornamentis totius glorificationis instructum coelestis unguenti rore sanctifica» («Compi nel tuo sacerdote la pienezza del tuo ministero, e, rivestitolo con le insegne della più alta dignità, santificalo con la rugiada del celeste unguento»). Nelle ordinazioni illegittime cinesi, alcune parti del rituale erano state spesso omesse o manipolate. Nella formula di giuramento erano stati omessi tutti i riferimenti al Papa e alla Sede apostolica. Erano state inserite formule di sapore nazionalista e “patriottico”, o riferimenti al “principio di indipendenza”, per attestare la dichiarata obbedienza nei confronti del governo. Nonostante tutte queste manipolazioni pesanti, lo studio accurato dei testi realizzato dall’ex Sant’Uffizio confermò che gli omissis e le inserzioni arbitrarie, anche nel caso in cui fossero state tutte effettivamente operate durante la celebrazione delle singole ordinazioni, avrebbero riguardato comunque aspetti non essenziali riguardo alla validità del sacramento

Quod facit Ecclesia 

L’altra condizione necessaria per la validità dell’ordinazione episcopale è che la consacrazione avvenga secondo l’intenzione di «fare ciò che fa la Chiesa» quando consacra un vescovo («intentio faciendi quod facit Ecclesia»). Sia nella Cina continentale che a Hong Kong, alcuni sostenevano che tale condizione veniva contraddetta dalle affermazioni di “indipendenza” e dall’assoluta assenza di riferimenti al legame col Vescovo di Roma. Ma anche su questo punto, le informazioni acquisite dall’ex SantUffizio esclusero che si potesse invocare il “difetto d’intenzione” per sollevare dubbi sulla validità delle ordinazioni cinesi. 

In particolare, sulla questione dell’intenzione, alcuni esperti consultati richiamarono un passo della Apostolicae curae (1896), la Lettera apostolica di Leone XIII sulla invalidità delle ordinazioni anglicane. In esso veniva ribadito il principio per cui, non potendo in tali casi la Chiesa giudicare dell’intenzione interna, ogniqualvolta venivano rispettate la forma e la materia richieste per l’amministrazione del sacramento si presumeva che il consacrante e il consacrato avessero inteso «fare ciò che fa la Chiesa» quando consacra dei vescovi. Su questo punto, uno dei consultori interpellati faceva notare che la stessa professione del Credo da parte dei vescovi “patriottici” durante la liturgia di ordinazione attestava la loro intenzione di confessare la stessa fede della Chiesa di Roma. In questo modo, si riconosceva e affermava che la comunione gerarchica dei vescovi cinesi con il Vescovo di Roma era di fatto già fondata e inclusa nella confessione della medesima fede

A conti fatti, per sciogliere ogni sospetto sul “caso cinese”, bastava aver familiarità e consonanza reale con la dottrina cattolica consolidata da secoli, e tener conto di come erano stati affrontati casi analoghi nella storia, anche recente, della Chiesa. Da san Gregorio Magno al Concilio ecumenico Vaticano II, da sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino fino al Codice di diritto canonico promulgato nel 1983, il Magistero e la teologia classica hanno riconosciuto validi i sacramenti amministrati anche da ministri eretici e scismatici, quando fossero adempiute le necessarie condizioni di validità, sulla base del fatto che «la virtù di Cristo che agisce nei sacramenti non viene ostacolata dalla condizione indegna del ministro» (Papa Anastasio II). Le sanzioni canoniche che colpiscono i vescovi consacrati senza consenso della Sede apostolica rendono nulli gli atti di giurisdizione e di magistero amministrati da costoro. Ma non possono rendere invalidi gli atti sacramentali, amministrati in virtù della potestas ordinis o potestas sanctificandi che è “irrevocabile”, in quanto conseguita in virtù del sacramento che tocca la dimensione ontologica della persona. E poi, si può davvero presupporre che i protagonisti di quella vicenda fossero animati da un reale intento scismatico? 

Nessuno scisma cinese 

Nessun Papa ha mai riconosciuto nella travagliata vicenda della cattolicità cinese la consumazione di un vero scisma. E a partire dalla fine degli anni ’70, si moltiplicavano le testimonianze di vescovi che dicevano di aver pronunciato le formule “indipendentiste” «solo con le labbra, ma non con il cuore». Molti raccontavano anche i “trucchi” che avevano usato per non pronunciare le formule più ambigue, omettendole con l’accordo del consacrante. Spesso l’organo della chiesa iniziava a suonare forte, riempiendo le navate col suo suono poderoso, in modo che nessuno riusciva a sentire le esatte parole usate nelle formule di giuramento… 

Fin dagli anni ’70, le lettere che i vescovi illegittimi inviavano a Roma con la richiesta di essere legittimati rafforzavano anche nei Palazzi d’Oltretevere la percezione che tutta la loro vicenda andava giudicata tenendo conto delle circostanze concrete in cui quei vescovi erano stati ordinati. Tutti si dichiaravano assolutamente certi della validità dell’ordinazione ricevuta. Tutti affermavano di aver accettato l’ordinazione senza mandato pontificio solo per garantire in tali circostanze la continuità della Chiesa in Cina, in attesa di tempi migliori. Per questo, pur lasciando la decisione ultima al Papa, anche la Congregazione per la dottrina della fede, guidata dal cardinale Joseph Ratzinger, espresse parere favorevole alla reintegrazione dei vescovi richiedenti nel pieno esercizio del proprio ministero episcopale, appellandosi al criterio della «suprema lex, che è la salvezza delle anime». Neanche la collaborazione dovuta da questi vescovi agli organismi “patriottici” controllati dal Partito comunista veniva di per sé presentata come un dato che precludesse questa possibilità. 

Dopo quello studio, i Papi predecessori di Bergoglio hanno sempre riconosciuto che la sincera volontà interiore di comunione con la Sede di Roma era il fattore determinante per considerare, caso per caso, le vicende di ogni singolo vescovo cinese, e anche le richieste e le proposte che loro facevano arrivare Oltretevere. «Se vogliono la comunione» ripeteva Giovanni Paolo II ai suoi collaboratori che lo aggiornavano sulle “cose cinesi” «io gliela concedo in un momento. Sono il Papa! L’unica vera domanda è: la vogliono davvero, la comunione?» E Benedetto XVI, nel libro-intervista Luce del mondo, scritto con Peeter Seewald (Lev, 2010), rimarca che «il vivo desiderio di essere in unione con il Papa è sempre stato presente nei vescovi ordinati in maniera illegittima. Ciò a permesso a tutti di percorrere il cammino verso la comunione, lungo il quale sono stati accompagnati dall’opera paziente compiuta con ognuno di loro singolarmente». 

I sabotatori della Tradizione 

I criteri che orientavano la Sede apostolica quando riconobbe e attestò la validità delle ordinazioni episcopali cinesi riecheggiano quelli seguiti dal cardinale John Tong, nel suo ultimo intervento sul futuro del fialogo tra Cina e Santa Sede. Si affannano a nasconderlo, i piccoli sinedri virtuali impegnati goffamente a mettere sotto “ricatto dottrinale” la Sede apostolica anche sulla questione cinese. Ma basterebbe avere un minimo di rispetto per la Tradizione e la natura propria della Chiesa, o tener almeno conto della fantasia usata nella storia per custodire la successione apostolica, e sarebbe facile riconoscere che adesso, nelle condizioni date, è lo stesso sensus fidei che suggerisce – come scriveva Benedetto XVI nella Lettera ai cattolici cinesi del 2007 – l’opportunità e la convenienza di trovare «un accordo con il Governo per risolvere alcune questioni riguardanti sia la scelta dei candidati all’episcopato, sia la pubblicazione della nomina dei vescovi, sia il riconoscimento — agli effetti civili in quanto necessari — del nuovo vescovo da parte delle Autorità civili». 

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