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‘Ndrangheta e Chiesa di Calabria: ieri e oggi

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Vatican Insider - pubblicato il 26/02/17
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Cinquant’anni fa, il 23 giugno 1967, la piazza del mercato di Locri, diventava teatro di uno scontro a fuoco tra i clan Cordì e Cataldo nel quale perdevano la vita tre persone ed altre restavano gravemente ferite. Sotto le raffiche di mitra dei killer cadevano non solo Domenico Cordì, obiettivo dell’azione, ucciso assieme a Vincenzo Saraceno, pure membro di una famiglia mafiosa, ma anche Carmelo Siciliano che stava solo scaricando casse di frutta nel momento sbagliato: l’ennesima vittima della violenza ’ndranghetista riesplosa per la guida del territorio e dei traffici illeciti.  

A circa mezzo secolo da quella data, ora, il 21 marzo, proprio per le vie di Locri sfileranno migliaia di persone, in un corteo aperto dai familiari delle vittime innocenti di tutte le mafie e, in cattedrale, due giorni prima, il presidente della Conferenza episcopale calabrese (Cec), Vincenzo Bertolone, presiederà una veglia di preghiera.  Si tratta della XXIII Giornata della memoria e dell’impegno promossa dalle associazioni “Libera” e “Avviso pubblico”, come di consuetudine, all’ inizio della primavera. Quest’anno avrà la sua manifestazione centrale nella cittadina sullo Jonio. «Non poteva esserci luogo più indicato che la Locride per questa giornata. Questa è una terra che ha sofferto e soffre. Questa terra è ancora bagnata di sangue e la Chiesa non può che stare vicino a chi soffre, ai familiari delle vittime innocenti. La Locride piange ancora i suoi figli»: così monsignor Francesco Oliva, vescovo di Locri-Gerace, nel Centro Pastorale presso la Chiesa Cattedrale di Locri, alla presentazione della giornata.  

«La Città di Locri – ha aggiunto don Ennio Stamile, coordinatore regionale Libera – è stata scelta per ricordare le vittime innocenti delle mafie non solo perché c’è stata una richiesta dai familiari, dal territorio e dal vescovo ma anche perché ci è sembrato giusto che in un territorio che soffre in maniera particolare per la presenza della ‘ndrangheta, si dia un messaggio di speranza e si evidenzi che proprio in questo territorio si sta lavorando per il cambiamento».  

Il rinnovato appuntamento vede dunque, per la prima volta, il completo sostegno dell’iniziativa da parte della Cec, il cui simbolo compare sui manifesti. Si è deciso di cogliere «un’opportunità per dire no a tutto quello che è accaduto nel passato, allo spargimento di tanto sangue, alle faide che hanno distrutto interi paesi» e «per dire no alla cultura mafiosa che ancora condiziona questa terra», ha affermato il vescovo Oliva, un sacerdote capace di rispedire al mittente sostanziose offerte alla chiesa perché provenienti da imprenditori in odore di ‘ndrangheta.  

Insomma: ricordare per guardare avanti con occhi nuovi. Ma anche un rinnovato impegno che vuole coinvolgere i più giovani. La sfida più grande? «Aiutare, soprattutto i giovani, a comprendere che la ‘ndrangheta non ha in sé niente di buono. Il fenomeno genera solo male», ripete don Tonino Saraco, parroco di Ardore, che di recente ha trasformato una palazzina confiscata alla mafia in un centro di aggregazione e da qualche settimana è stato pure chiamato alla guida del Santuario di Polsi. Un avvicendamento richiesto da don Pino Strangio, da vent’anni custode di questo luogo sacro, il quale, pur proclamandosi innocente, risulta indagato per concorso esterno in associazione mafiosa nell’ambito di una inchiesta della Procura di Reggio su massonerie deviate e ‘ndrangheta. «Polsi come grembo di madre è chiamata a generare alla vita cristiana ed a convertire i peccatori al Vangelo. Un Vangelo che rifiuta il compromesso col potere del denaro e delle armi, della violenza e dell’arroganza mafiosa», sono le parole di monsignor Oliva al neorettore.  

Ad esprimere lo stesso pensiero, non certo considerandolo una novità, anche il titolo inequivocabile – La ‘ndrangheta è l’antievangelo – di un volume appena uscito (Tau Editrice) che riporta i documenti degli ultimi 100 anni delle Chiese calabresi. Pagine che riprendon i discorsi degli ultimi Pontefici in visita alla regione: Giovanni Paolo II nell’ottobre 1984 con il suo «annuncio di speranza»; Benedetto XVI il 9 ottobre 2011 con «l’invito alla fede dei calabresi come antidoto alla criminalità organizzata»; Francesco il 21 giugno 2014 tuonante sulla piana di Sibari: «La ‘ndrangheta è adorazione del male» e «i mafiosi sono scomunicati, non sono in comunione con Dio». Presenti nel volume anche documenti collettivi della Chiesa locale, a partire dal 1916, come: la Lettera pastorale per la Quaresima di quell’anno, in cui si posero le premesse per una purificazione della pietà popolare, o “Eucarestia e ricostruzione morale della società” per la Quaresima 1947, o ancora i testi “L’Episcopato calabro contro la mafia, disonorante piaga della società” del 1975 e “Se non vi convertirete perirete tutti allo stesso modo” del 2007, fino al Direttorio “Per una nuova evangelizzazione della pietà popolare” del 2015 e “Testimoniare la verità del Vangelo” del 2014. 

Insomma un secolo di documenti delle Chiese di Calabria contro le dinamiche criminose orchestrate dalle mafie, dai quali emerge l’impegno di testimoniare il Vangelo contro ogni forma religiosità che lo tradisca. Curato dai sacerdoti don Giovanni Scarpino, Enzo Gabrieli, Filippo Curatola, il volume “La ‘ndrangheta è l’antievangelo” ha la prefazione del presidente della Cec, monsignor Bertolone,  a documentare il cammino fatto alla ricerca di «percorsi coraggiosi per una purificazione della religiosità». Un cammino che ha, dunque, origini lontane, con i vescovi calabresi per lungo tempo accusati di connivenza o sospettoso silenzio, dimostrano pure di aver detto più d’una parola. Un cammino lento, che, forse, ha visto solo dopo il Vaticano II, un vero passaggio da una Chiesa detta del “silenzio” ad una Chiesa capace di “parole” ma soprattutto di “gesti”. Con un obiettivo: chiedere il rispetto della legge degli uomini e del Vangelo.  

«Malgrado la scontata inconciliabilità del Vangelo con ogni forma di crimine, lo stato reale del cattolicesimo in Calabria ha costituito nel primo ‘900 un terreno alquanto esposto alle penetrazioni strumentali della ’ndrangheta». E «la gerarchia ecclesiastica calabrese non considerava la criminalità come il principale pericolo da scongiurare, ma, sotto diversi aspetti, ne percepiva le interferenze nella religione popolare, che, in quegli anni, era oggetto di grande attenzione e di interventi più decisi del governo pastorale», osserva Roberto Pasquale Violi nel suo saggio di due anni “Su ‘ndrangheta e religione cattolica nella Calabria del primo Novecento”, apparso su “Ricerche di storia sociale e religiosa” (la rivista fondata da Gabriele de Rosa per i tipi delle Edizioni di storia e letteratura).  

In realtà, l’accentuazione dei rischi di compromissione del clero negli aspetti mafiosi della definizione dei poteri locali è apparsa in quest’area qualcosa di progressivo e di difficile da smantellare, lungo tutti i primi decenni del XX secolo, anche per la scarsa presenza dello Stato. Di questo periodo sono note altresì le difficoltà per l’affermazione del Movimento Cattolico considerato dalle organizzazione mafiose un concorrente. Da qui la lentezza – rispetto ad altre regioni italiane – nell’istituzione di casse rurali, opere sociali, strutture educative, in territori di fatto controllati dalle ‘ndrine paesane, impermeabili ai primi e un po’ timidi richiami delle gerarchie, ‘ndrine perfettamente capaci di muoversi falsificando i veri valori della famiglia, mimetizzandosi dentro forme religiose tradizionali, come le processioni e i pellegrinaggi, garantendo, in apparenza, gli stessi principi solidaristici, bandiera del Movimento cattolico popolare.  

Nei fatti, senza entrare nel merito di duri giudizi sui limiti del clero calabrese di quel tempo (ricorrenti nei resoconti di visitatori apostolici o nelle note di consultori romani), oppure nella debole vigilanza nei confronti delle confraternite (istituzioni operanti sul piano religioso, ma pure economico, di controllo del tessuto sociale), per tutto l’inizio del “secolo breve”, quella della Chiesa di Calabria è stata anche – come in altre aree del Mezzogiorno – una storia di incontri e scontri con la mafia.  

Insomma, nelle sue declinazioni religiose e politiche, una storia costellata di complicità, ma anche resistenze, sulla quale è utile ritornare per capire, parallelamente al “cammino di liberazione” prima evocato, pure il lento sgretolamento di un sistema perverso. Un ‘apparato, con le sue concezioni e i suoi metodi, capace di strumentalizzare valori della cultura tradizionale e fattori della modernità, e di condizionare con il proprio potere la vita di tante comunità e singoli, innanzitutto annidandosi nelle istituzioni, nella politica, nelle strutture del mondo del lavoro. E qui basterebbe ripercorrere un’altra sintesi di Violi (“Cattolicesimo, ‘ndrangheta e politica nel secondo dopoguerra”, proprio sull’ultimo numero di “Ricerche di storia sociale e religiosa”), per aver conto, anche solo in un passaggio delicato come il primo decennio ’45- ’55 postbellico, di tanta attività malavitosa nei condizionamenti elettorali e nel controllo degli aiuti internazionali. Come pure delle differenti reazioni nell’operato di prefetti, questori, responsabili dell’ordine pubblico, ma soprattutto di esponenti della DC e del PCI, della POA, la Pontificia opera assistenza, oltre che dell’episcopato e dal clero della regione.  

Ma torniamo ancora indietro: suppergìù ad un secolo fa. Di grande interesse si rivela la “relatio ad limina” di Camillo Rinaldo Rousset, arcivescovo di Reggio nella quale il presule, già nel 1916, dopo il Patto Gentiloni asseriva che nella zona le elezioni dipendevano quasi sempre dalla “mafia” più temibile della massoneria (affermazioni ribadite nella “relatio” del ‘24, nonostante la nascita del Partito popolare). Detto questo sarebbe miope non vedere proprio nell’avvento del fascismo, anche nell’area esaminata, un momento di riavvicinamento della Chiesa allo Stato, in grado di infondere nell’episcopato la speranza di debellare la mafia. Innanzitutto per le garanzie nello spazio pubblico offerte dal Concordato, che consentiva pure di contrastare le intromissioni mafiose nelle celebrazioni sacre, nelle feste religiose, nei pellegrinaggi. In realtà nel periodo fra le due guerre l’episcopato calabrese credette di rilevare una specie di rifioritura della fede, ma ne colse presto l’incoerenza con lo stato della moralità e, sotto questo aspetto, guardò alla ’ndrangheta, preoccupato in particolare del coinvolgimento di giovani e donne nei misfatti delle ‘ndrine in quel periodo in grado di influenzare solo quadri fascisti periferici, mentre parecchi affiliati, in carcere o al confine, s’integrarono persino nell’opposizione antifascista.  

Caduto il regime però ecco, da Reggio a Catanzaro, la pronta riemersione della mafia interessata a incidere sulla ripresa dell’attività politica, a rendersi presentabile agli Alleati, ad interferire nell’avviato scontro ideologico tra cattolici e comunisti, dove pure la Chiesa di Pio XII scendeva in campo. In questa cornice, complice anche il malinteso senso della libertà appena acquisita -additato nella Quaresima del ’45 da vescovi come quello di Gerace, Giovanni Battista Chiappe – la criminalità tornò a dilagare. «La guerra era appena finita e c’era molta miseria e disordine, per cui non mi sembrò di compiere nulla di strano col partecipare a incendi, furti, rapine e altri delitti», affermò anni dopo Serafino Castagna, uno dei primi collaboratori di giustizia del secondo dopoguerra, riferendo i suoi trascorsi. Una testimonianza, la sua, a ricordarci serbatoi di consenso e fattori non solo politici usati dalla ‘ndrangheta.  

Certo fare la storia delle relazioni fra Chiesa e ‘ndrangheta, vuol dire fare anche la storia di tanti sacerdoti che si ribellarono già all’alba del ‘900. Qui c’è lo spazio solo per fare due o tre nomi. Quello di Arcangelo Fazzari, l’arciprete di Maropati (nel circondario di Palmi), che preoccupato del dilagare dei crimini, aveva esortato le donne nella chiesa gremita a pregare i loro mariti «di lasciare una buona volta quella mala vita», ma, nonostante il suo coraggio, era stato costretto successivamente al silenzio dalle minacce degli aderenti alla ‘ndrina locale (se ne è occupato don Filippo Ramondino in più pagine).  

Quello di don Gaetano Catanoso, canonizzato da Benedetto XVI nel 2005: parroco di Pentedattilo e poi della Candelora a Reggio Calabria, una vita di carità dentro un ambiente di sopraffazione, non esitò a celebrare matrimoni ostacolati dalla malavita e ad interporsi più volte a impedire esecuzioni mafiose. Di lui è stato scritto che, per aver difeso i deboli, fu disarcionato dall’asino e schiaffeggiato, oppure che, durante una processione, gli fu tagliata la tunica in segno di oltraggio e intimidazione (si veda in ogni caso il profilo dedicatogli da Paolo Gheda “Il custode del Volto Santo. Breve storia spirituale di Gaetano Catanoso”, edito dalla Sei trent’anni fa). E si potrebbe aggiungere come terzo nome, quello di don Gennaro Amato, ucciso nella rivolta di Caulonia, l’episodio più clamoroso del conflitto sociale in Calabria: nessuno potrebbe definirlo con i termini di oggi un “prete antimafia”, ma la sua figura è pur sempre una di quelle che smentiscono lo stereotipo del prete calabrese facile a collusioni con la ‘ndrangheta: da parroco, testimone dell’insicurezza nella sua terra, esercitò la carità cristiana, mai rinunciando a denunciare – persino dal pulpito – l’incoerenza di chi coniugava vita criminale e partecipazione alle feste religiose.  

Altro discorso quello dei rapporti fra Chiesa e politica locale e qui assume un valore paradigmatico la figura di don Giovanni Stilo, l’amministratore del seminario di Reggio, che agiva in luogo di una vera sezione DC, «appoggiandosi ai noti pregiudicati del posto» (così informava il prefetto nel ’46), non dimenticando che, incriminato negli anni ‘80 per associazione mafiosa, il sacerdote fu prosciolto avendo rivendicato l’opportunità delle sue frequentazioni mafiose per ragioni di apostolato. Il maggior peso acquisito dalle cosche nel dopoguerra (con i nuovi fronti del contrabbando, del controllo della manodopera nei settori produttivi, la droga sarebbe arrivata dopo), finì certamente per toccare anche l’operato di parecchie amministrazioni locali democristiane. Tutto un mondo se vogliamo così dire, cattolico, che fu pure messo alla prova nel ’55, con l’Operazione Marzano, con l’ex questore di Palermo che nel suo mandato riuscì a sospendere le connivenze di pubblici poteri o i rapporti di scambio tra esponenti democristiani e della Destra con i boss (persino latitanti).  

A prescindere da ogni giudizio, conclusa l’Operazione, la mafia fu tutt’altro che estirpata. E mentre ai vertici della Chiesa calabrese maturava l’esigenza di maggiore coesione politica, e vescovi come Giovanni Ferro, avvalendosi anche della POA, cercavano di verticalizzare le dinamiche della DC regionale per conformare gli interessi sociali della Calabria alla visione cattolica, alla base, parroci, come quello di Roghudi, Salvatore Tripodi, continuavano a denunciare la sottomissione delle comunità alle ‘ndrine. Con qualche risultato nei comportamenti dei fedeli. Nel ’57 proprio il sindaco di Roghudi, Pietro Nucera, sequestrata per sei giorni una maestra, si presentò con lei alle autorità di polizia, dichiarando la donna… d’esser fuggita consensualmente per vincere l’opposizione familiare al matrimonio con il sindaco. La stessa però poco dopo ritrattava con coraggio la deposizione cui era stata obbligata da «notabili» del posto, a tutela «sua» e dell’«onore della famiglia». Il suo gesto, condiviso dal vescovo contrario a nozze forzate, costituiva una novità nella Calabria Anni ’50. Che cominciava a ribellarsi davvero alla ‘ndrangheta e alle distorsioni circa valori tradizionali come l’onore e la religione già oggetto di due interessanti lettere pastorali di Enrico Montalbetti, esponente della tradizione ambrosiana e uomo del Nord, nominato arcivescovo di Reggio dal 1938 al 1943.  

Attento alle declinazioni della religiosità in rapporto ai tratti culturali della società calabrese, Montalbetti, anche quanto a processioni e celebrazioni, aveva già toccato il tema del radicamento mafioso nella società religiosa. Anche se, come per altri presuli, si trattava di documenti pastorali dove erano assenti espliciti riferimenti alla ’ndrangheta e mancavano sicuramente le conclamate denunzie alle quali ci hanno invece abituati dall’inizio degli anni ’80 non pochi sacerdoti. Preti impegnati a dare ragioni di speranza ad aree dove a lungo non ha abitato. Preti del Sud, diventati subito bersaglio non solo di avvertimenti, ma di attentati. Come dimenticare – e non lo fanno Nicola Gratteri e Antonio Nicaso nel loro libro “Acqua santissima. La Chiesa e la ’ndrangheta: storie di potere, silenzi e assoluzioni” edito da Mondadori – il ferimento nell’87 di don Domenico Tropeano, parroco di Ciminà; i colpi di pistola nel 1990 contro la casa di don Giorgio Rigoni, parroco di Belcastro; nel ’91 contro don Cosimo Latella, parroco della frazione Melia di Scilla; nel ‘94 il manifesto di morte pronto per don Mimmo Caruso, parroco di Sant’Eufemia d’Aspromonte; nel 2001 la bomba carta contro la canonica di don Edoardo Scordio, parroco a Isola Capo Rizzuto? Come scordarsi, in anni vicini, le figure di don Tonino Vattiata, parroco di Pannaconi di Cessaniti o don Giuseppe Lo Presti, parroco di Scaliti, frazione di Filandari, nel Vibonese, don Rigobert Elangui, parroco di Benestare, nella Locride o il già citato don Ennio Stamile, parroco di Cetraro? Preti del sud, ma anche del Nord che, facendo scelte di vita, hanno deciso di vivere qui.  

Come è stato per don Giacomo Panizza. «Prima di studiare in seminario lavoravo in fabbrica…», racconta, «i millecento chilometri che separano Brescia da Lamezia Terme li ho percorsi a 28 anni, dopo aver conosciuto alcuni giovani con disabilità che in Calabria non trovavano risposte adeguate ai loro bisogni di assistenza. Si erano rivolti altrove, fantasticando un futuro ipotetico nel Settentrione…. Rassegnati, si preparavano a seppellire la vita in istituti lontano da parenti e conoscenti Ci siamo incontrati per caso o per provvidenza… Ci siamo piaciuti e alleati e le nostre esistenze, le loro e la mia, si sono capovolte». Così il sacerdote bresciano da oltre trent’anni prestato alla Calabria dove, nel 1976 a Lamezia ha fondato Progetto Sud, comunità aperta di gruppi autogestiti impegnati in iniziative di condivisione e accoglienza per soggetti svantaggiati, e dove, dal 2002, vive sotto tutela per le minacce di morte della ‘ndrangheta avendo occupato uno dei suoi palazzi confiscati.  

Il brano sopra citato è spigolato dal suo volume in libreria da pochi giorni Cattivi maestri (Edb), titolo che rimanda a quei poteri politici, economici, culturali, religiosi, soliti a mettere fra i “cattivi” quanti insegnano valori e comportamenti che ne scompigliano i radicati privilegi. Si tratta di pagine che dimostrano come, messi sui due piatti della bilancia i pesi dei problemi e delle speranze, può vincere la speranza. Anche con qualche costo. Quasi ogni capitolo – lo sottolinea anche Goffredo Fofi nella prefazione – ha insegnamenti da offrire ben motivati. Sviscerato, in particolare, è il tema del governo mafioso di un territorio, di cui è fondamentale conoscere il funzionamento per ogni azione di contrasto. Un mondo che l’autore (guai però a chiamarlo “prete antimafia”) conosce nelle sue regole e dinamiche, nella mentalità di boss, donne di mafia, giovani delle cosche, nelle basi del consenso, del reclutamento e della mediazione sociale, nei metodi di accumulo di ricchezze e potere. Un mondo che si vince con un’educazione alternativa e la consapevolezza che lo slogan «la mafia uccide, il silenzio pure» è verità. Per Panizza infatti si tratta più che di combattere l’illegalità, di imbastire percorsi educativi per «riprendersi la società». Come? Facendosi rispettare nei propri diritti. Esigendo l’assunzione di responsabilità verso la res publica. Scommettendo sugli investimenti che contano: quelli di fiducia. E spingendo energie evidenti o nascoste ad uscire dall’ isolamento e dall’ egoismo. «Tutti finalmente hanno capito che mafia e Vangelo non possono andare a braccetto», ha ripetuto don Pino Demasi, vicario episcopale della diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea, referente di “Libera” e fondatore della cooperativa “Valle del Marro”. 

Un impegno che anche la Conferenza Episcopale Calabrese e molte diocesi da tempo hanno fatto proprio. Un impegno che non può ridursi, anche se è già qualcosa, ad arginare il controllo mafioso delle processioni, occasioni di cui i boss si avvalgono per riaffermare il loro prestigio e il loro dominio sul territorio – magari portando le statue della Vergine o dei Santi, o imponendo i famosi inchini – e nemmeno può limitarsi ad impedire che noti esponenti malavitosi possano essere padrini o madrine di battesimo, comunione, cresima, anche perché il consenso sociale, ormai, è sempre meno cercato dalla generazione emergente dell’ ‘ndrangheta (gli uomini con le coppole tutt’al più sono al 41bis), all’ombra di campanili e sagrestie.  

Si tratta di puntare piuttosto su un lavoro collettivo per la legalità e lo sviluppo. Si tratta di «riprendersi la società»: cominciando dalla politica, perché, come sostiene don Panizza: «Quando in un territorio i voti sono accaparrati dalle mafie, ne scaturisce un governo in cui la democrazia è solo formale, e se la gente sa che i voti non sono stati liberi, rimane fredda, apatica, e timorosa». È dunque il contesto che va cambiato, se davvero si vuole mettere la parola fine al fenomeno.  

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