di Salvatore Barnocco
Un libro documentato, di cui è autrice Valentina Karakhanian, “La Santa Sede e lo sterminio degli armeni nell’Impero Ottomano”, dimostra inappellabilmente che la Chiesa cattolica si adoperò in modo fattivo, per vie diplomatiche e non, per arrestare lo sterminio del popolo armeno nel 1915.
Figura emergente in quel terribile contesto fu il cardinale e arcivescovo Angelo Maria Dolci, diplomatico vaticano a Costantinopoli, descritto come «un diplomatico onesto, una persona straordinaria. Se dovessi definirlo, userei la citazione evangelica in cui Gesù raccomanda ai suoi discepoli di essere “astuti come serpenti e semplici come colombe”», scrive l’Autrice, che ha consultato il materiale custodito nell’Archivio Segreto del Vaticano.
L’arcivescovo Dolci stesso appunta: «Pare che la persecuzione del Governo contro i cristiani non si limiti agli armeni, ma si estenda a cattolici e non cattolici». Grazie alla sua mediazione, papa Benedetto XV scrisse almeno tre missive al sultano ottomano Mehmet V, che lo stesso diplomatico si impegnò a consegnare personalmente. Il 15 gennaio 1916 il Papa ricevette la risposta del sultano: «Le notizie che pervengono dalla Santa Sede sulla sorte degli armeni nel nostro Paese non rispondono alla realtà dei fatti».
Il Pontefice, in ogni caso, si adoperò affinché la persecuzione venisse attenuata. Ma il card. Dolci fece di più, mobilitando, nello scenario intricato della Prima Guerra Mondiale, Eugenio Pacelli, al tempo delegato apostolico a Monaco, il quale cooperò concretamente con lui per soccorrere, attraverso i buoni uffici della Germania, dell’Austria e dell’Ungheria, il popolo armeno. Come evidenziò un francescano nel 1917 in merito al destino di 200 famiglie di Ankara: «Si oppongono al mutamento di nome. Non vogliono abiurare il cristianesimo, così come chiede il Governo».
Il diplomatico vaticano Dolci è come la goccia che scava la roccia, persistente nella sua azione di denuncia e di soccorso. Riuscì, grazie alle sue fini doti diplomatiche, a salvare la vita a 60 cristiani di Aleppo, condannati a morte con l’accusa di aver rubato dei datteri. Dolci scrive al Ministro della Guerra turco, rappresentandogli che l’esecuzione avrebbe posto in pessima luce l’Impero. Pur ammettendo la fondatezza delle accuse, suggerisce che una amnistia avrebbe mostrato la magnanimità dell’Impero e sarebbe stata molto gradita al Papa. I 60 di Aleppo vennero perdonati e scamparono alla morte. Benedetto XV, da parte sua, sollecitò l’adozione di un assetto politico internazionale in cui l’Armenia fosse indipendente dall’influenza dell’URSS o da quella turca. Il Papa si rivolse anche al presidente degli USA, Woodrow Wilson, in qualità di «presidente della più grande democrazia del mondo».
L’Armenia libera durò poco. Nel 1920 fu sottomessa all’URSS. La lettera di Benedetto XV all’ambasciatore statunitense terminava con l’appello ad una pace giusta. Il Santo Padre, che avvertì dei «massacri inutili» agli albori del Primo Conflitto Mondiale, si rivelò profetico: «La pace non durerà se si impongono condizioni che lasceranno profonde tracce di rancore e progetti di vendetta. Le vicende del passato sono padrone del futuro». Un futuro che si manifesterà in forme belliche, accompagnate da altro genocidio.
Il Papa della pace spirò nel 1922. Il cardinale Dolci nel 1939. Eugenio Pacelli fu proclamato Papa nello stesso anno col nome di Pio XII. Gli sforzi diplomatici dei tre salvarono molti, un numero che non si può contabilizzare. Di certo c’è che – come conclude l’Autrice – «la grandezza di un diplomatico sta nel fatto che non gli si può accreditare niente di concreto, però è indubbio che senza il suo intervento niente sarebbe stato possibile».