Il successo di un metododi Cristian Martini Grimaldi
Ogni giorno decine di migliaia di giovani ragazzi italiani si svegliano e cominciano la loro quotidiana ricerca di un impiego. Soprattutto in Italia trovare lavoro è diventato sempre più complesso: occorre passare interi pomeriggi su internet a inviare curriculum, a scorrere siti con centinaia di annunci, a telefonare, cercando di non cadere nella trappola degli stage non retribuiti.
Se si chiede a un esperto, vi dirà che il primo posto da visitare sono i siti delle agenzie per il lavoro, in seconda battuta ci sono i social network: Linkedin domina, ma anche Facebook comincia a essere un luogo di ricerca, anche perché, si sa, in Italia le “connection” contano moltissimo.
Ma se c’è un luogo al mondo che pare aver ideato un sistema apparentemente infallibile per la ricerca di lavoro, questo è il Giappone. Infallibile perché nonostante un’economia che non cresce da anni, la percentuale di disoccupazione è ferma al di sotto del 5 per cento.
Spesso è infatti proprio la mancanza di un sistema organizzato a determinare una clamorosa perdita di tempo per chi, invece, avrebbe veramente bisogno di un reddito per entrare così finalmente a far parte di quel club ambitissimo, e ormai sempre più ristretto, di coloro che possono dirsi indipendenti.
I turisti stranieri per le strade di Tokyo si domandano che cosa fanno quei giovani uomini e donne che vedono indossare uniformi nere, ma che non sembrano avere la cronica stanchezza dei salaryman (i classici impiegati) e non sono evidentemente uomini d’affari. La risposta: si tratta di studenti universitari giapponesi che vanno a caccia di posti di lavoro.
Ed è a marzo che solitamente milioni di giovani giapponesi — dai 19 ai 22 anni di età — si ritrovano a passare dai banchi dell’università direttamente a quelli dei colloqui di lavoro. Le aziende, per non ostacolare gli studi, spostano le attività di reclutamento a marzo, quando l’anno universitario termina per poi riprendere a inizio aprile.
Lo «shūkatsu» — l’abbreviazione di «shūshoku katsudō» (attività di ricerca di lavoro) — indica un determinato periodo di tempo dedicato alla ricerca di lavoro o le attività ad esso collegate (ci sono decine di materiali di studio su come meglio poter prepararsi a questo periodo di intensi colloqui) con modalità molto diverse da quelle dei Paesi occidentali, dove solitamente si spediscono quanti più curriculum possibili sperando che qualcuno risponda positivamente o che almeno qualcuno semplicemente risponda, visto che non c’è peggior frustrazione per un disoccupato di veder ignorati tutti i propri sforzi.
Lo shūkatsu non è altro che un reclutamento simultaneo di laureandi (dunque studenti a tutti gli effetti). La maggior parte degli studenti infatti passano direttamente dall’Università al lavoro vero e proprio, ovvero passano dall’essere daigaksei (studenti) a shakaijin, letteralmente «persone che sono dentro la società», a ribadire il fondamentale concetto che solo il lavoro può conferire un ruolo all’interno della società, e dunque contribuire a formare un’identità, in ultimo a dare un senso alla propria esistenza, perché senza quello non siamo nessuno. Se vi sembra un pensiero estremo, allora consiglio di rileggere l’ormai tristemente famosa lettera del trentenne friulano suicida perché stanco di una vita da precario.
Vi sono vari siti web di supporto allo shūkatsu, che consentono la ricerca di varie aziende in maniera efficiente e razionale. Ma dopo questa prima fase online si passa immediatamente alla fase face-to-face.
Esistono infatti dei veri e proprio meeting dove vengono invitate migliaia di aziende, ed è qui che gli studenti possono verificare di persona quelle che rispondono ai propri interessi. Una sorta di Salone del Libro dove al posto dei gazebo dei vari editori ci sono migliaia di società, rappresentate da due o più persone, e divise per sezioni: marketing, finanza, ingegneria, ecc.
Ma un laureando cosa deve fare per arrivare a ottenere l’agognato posto di lavoro?
Per cominciare, dopo aver valutato le aziende di suo interesse, deve riempire un modulo online dove scrivere le proprie informazioni personali, i corsi di studio scelti durante il periodo universitario, elencare le attività di volontariato svolte, ed eventualmente attività di impresa create, quelle per intenderci che ora va di moda chiamare start up. Poi i vari lavori part-time svolti e che in Giappone tutti fanno: anche i figli di miliardari alla fine dei loro studi avranno sperimentato quei lavoretti di dodici o sedici ore a settimana, pagati meno di dieci euro l’ora, perché in Giappone si è sempre sotto pressione, a prescindere da quanto è cospicuo il conto in banca di mamma e papà: «la vita non è una passeggiata» è il principio che anche i più fortunati devono capire fin da subito.
Questa fase è detta anche “Pre-entry”, da non confondere con la presentazione del proprio curriculum. Solo dopo questa fase infatti si può accedere alla fase “Entry”, ovvero l’invio del proprio cv.
In poche parole, solo dopo aver verificato che esiste un reale interesse da parte del laureando di lavorare per quell’azienda, il datore di lavoro concederà la possibilità di presentare il proprio cv, che in realtà è qualcosa di ben diverso da come lo immaginiamo noi.
Per cominciare, se si intende lavorare per una grande compagnia, occorre scrivere una lettera rigorosamente su carta, dunque scritta a mano! (sì, ancora nel 2017 i giapponesi, ovvero gli inventori dei videogame portatili, della Play station e dei robot di compagnia scrivono i propri curricula a mano e su carta), dove il candidato racconterà del proprio operato durante gli anni universitari, rivelerà i propri punti di forza e di debolezza, così come una varietà di altri dettagli personali.
A quel punto il candidato potrà verificare online se ha passato questa seconda fase, e dunque se potrà accedere alla prima vera selezione che, in modo particolare per le grandi aziende, si svolge come un vero e proprio esame di scuola: ci sono domande di cultura generale, matematica, scienza, biologia, che fanno parte — o dovrebbero far parte — del bagaglio culturale di qualunque laureando. Infatti sono domande che equivalgono all’esame di quinta elementare. E se la cosa può far sorridere pensando che tutti saprebbero rispondere automaticamente a domande pensate per ragazzi di dodici anni di età, chiedetevi quanti ventenni italiani saprebbero rispondere alla seguente domanda: «Quali sono i sinonimi e i contrari della parola “potenziale”?». Oppure, qual è il significato della parola “deflazione”.
Sono domande fatte per fissare un limite minimo di nozioni di cultura generale, che qualunque ragazzo dovrebbe possedere a prescindere dal lavoro che andrà a svolgere, se intende inserirsi nella società cosiddetta adulta, ma soprattutto a stabilire se tanti anni di studio sono effettivamente serviti a qualcosa.
Ci sono poi gli esami di lingua giapponese, e la verifica delle capacità di esprimersi formalmente, ovvero di saper usare quel linguaggio che non fa parte dell’abituale texting da smartphone e twitting da social network. E qui viene in mente il recente appello di seicento docenti italiani, tra cui linguisti, storici, filosofi, matematici, che hanno scritto al presidente della Repubblica denunciando che in Italia gli studenti non sanno l’italiano («bisogna ripartire dai fondamentali, grammatica ortografia, comprensione del testo» si legge nell’appello).
Forse se anche in Italia, prima di accedere a qualunque tipo di professione, fosse obbligatorio un esame di questo tipo, magari gli studenti si sentirebbero più motivati nel far uso del congiuntivo piuttosto che di una corretta punteggiatura.
Dopo questa prova scritta ci saranno i colloqui, il tutto può durare dai 30 giorni fino ai sei mesi a seconda delle aziende. Si tratta di una vera e propria sfida tra migliaia di “concorrenti”, che richiede molti sacrifici e rinunce, ma se si hanno le carte in regola si viene quasi sempre premiati, anche perché questo tipo di sistema, rigidamente strutturato, con regole fisse a determinare il migliore candidato possibile per l’assunzione, riduce di molto la possibilità che si infiltrino i soliti raccomandati.
Ma gli occidentali hanno sempre guardato con un certo sussiego il modello giapponese, criticato per essere troppo rigido e incapace di far emergere i talenti, un sistema che ridurrebbe sì l’incompetenza, ma solo a costo di un generale appiattimento verso il basso, o come diceva più “umilmente” il generale MacArthur, il vero restauratore del Giappone post-bellico, «i giapponesi somigliano a dei ragazzini di dodici anni».
Eppure qui i ragazzini di dodici anni sanno già esprimersi con un linguaggio formale, keigo, quello utilizzato nei rapporti di lavoro tra adulti per intenderci, quando i nostri neolaureati, a detta dei loro stessi docenti, nelle tesi di laurea commettono errori da terza elementare.