Il giorno in cui in Irlanda del Nord, 45 anni fa l’esercito inglese aprì il fuoco sulla comunità cattolica di Derry nel Bogside, il quartiere che oggi conserva la memoria del Bloody Sunday, monsignor Eamon Martin aveva 10 anni. Il Primate della Chiesa in Irlanda, la massima autorità cattolica romana nell’isola, ha la mitezza tipica delle persone che sono nate in questa città. Questo tratto caratteriale si accompagna a una estrema fermezza e altrettanta chiarezza nella visione di una Chiesa di cui ha ereditato la guida nel 2014, dopo gli anni difficili e turbolenti in cui sono emersi gli abusi sessuali ad opera di preti e suore. L’ultimo rapporto lo scorso 20 gennaio è stato pubblicato a Belfast dall’Historical Institutional Abuse proprio nel giorno della visita ad limina dei vescovi irlandesi a Roma.
L’arcivescovo Martin quel giorno ha voluto ribadire che con il Papa «ogni volta che abbiamo affrontato l’argomento degli abusi lo abbiamo fatto in maniera molto seria. Ho ringraziato papa Francesco – ha detto ancora – per l’esempio che ci ha dato e che ci dà nel tendere la mano a coloro che sono sopravvissuti». E d’altronde il Primate non esita a usare un’immagine cara al Pontefice per definire la sua Chiesa «”un ospedale da campo. Che per noi – aggiunge – non è lontano. È qui».
Papa Bergoglio conosce l’Irlanda: negli anni giovanili ha studiato inglese a Dublino. Ora questo Paese lo attende nel 2018 per l’Incontro mondiale delle Famiglie. Se il Pontefice dovesse accogliere l’invito si tratterebbe di una visita storica, dopo quella di Giovanni Paolo II nel 1979. Soprattutto perché potrebbe andare anche nelle sei contee del Nord, che allora non fu possibile visitare perché nel pieno degli anni bui dei Troubles. Quelli dello scontro tra l’Ira e la Royal Ulster Constabulary, la polizia federale dell’Irlanda del Nord, oggi sciolta. Delle bombe, e della violenza settaria tra protestanti e cattolici. Che ebbe il suo tragico inizio proprio in quella domenica di sangue con quattordici morti inermi a Derry.
Oggi l’Irlanda del Nord si trova in una pericolosa situazione di incertezza a causa della Brexit: il Paese potrebbe essere di nuovo spaccato in due da una frontiera fisica. Le prossime elezioni il 2 marzo stanno per tenersi in un clima che suscita molta preoccupazione anche nella Chiesa.
Il 22 febbraio i vescovi del Nord Irlanda hanno scritto un documento in cui si rivolgono direttamente ai politici: «In questo momento in cui emergono a livello locale crescenti divisioni e nello stesso tempo è in corso il negoziato sul cambiamento del nostro status nell’Unione Europea vi chiediamo di rigettare la tentazione di ricadere nelle divisioni di parte».
Monsignor Martin perché avete sentito la necessità di scrivere questo documento?
«Perché vogliamo calmare le acque, soprattutto in queste ultime settimane in cui nel clima elettorale sta riemergendo una stigmatizzazione delle identità, un ritorno alla rabbia. Vogliamo dire come vescovi il nostro no fermo al ritorno a un linguaggio aspro e duro e incoraggiare i nostri politici a fare attenzione perché la loro vocazione è quella di lavorare per il bene comune, di esercitare la propria leadership attraverso l’attenta pratica del compromesso e dell’accordo. Ai politici, perciò, vogliamo dire di stare attenti a non sacrificare i progressi che abbiamo fatto negli ultimi vent’anni, dopo gli accordi di pace del Venerdì santo».
Che cosa è accaduto in questi anni?
«Grazie agli accordi del Venerdì santo in Nord Irlanda è stata esercitata condivisione del potere tra nazionalisti e unionisti, repubblicani e loyalisti. I due partiti maggioritari Dup e Sinn Fein che hanno rappresentato le divisioni nel passato hanno lavorato assieme in un governo condiviso».
Cosa potrebbe succedere dopo le elezioni?
«Francamente non lo so. Forse cambierà poco: continuerà la devoluzione del potere da Westminister e si raggiungerà un accordo nei negoziati della Brexit. È di certo meno semplice quello che sta accadendo prima delle elezioni ma è più importante quello che accadrà dopo».
L’Unione europea ha avuto un ruolo di garante dei diritti civili in questi anni nelle sei contee del Nord.
«Sì, i principi dettati dall’Unione Europea di pace, riconciliazione e armonia hanno caratterizzato il processo di pace. Anche per questo ci rende un po’ nervosi l’impatto che potrebbe avere la ricostruzione di un muro di confine in un processo di pace che non è ancora finito».
Nel testo vi rivolgete direttamente anche agli elettori. Perché?
«Il nostro documento vuole inoltre incoraggiare le persone a votare perché il pericolo reale è che a seguito di questo clima di tensione le brave persone siano scoraggiate a votare. Ma noi vogliamo che vadano a votare, perché è un loro diritto».
Vi ponete dunque in una posizione di pontieri tra i due fronti.
«La Chiesa vuole essere una voce pacifica di riconciliazione in questo rischio del ritorno alle vecchie divisioni che hanno infiammato il passato».
D’altronde la Chiesa in Irlanda è una sola.
«Sì, per la Chiesa cattolica c’è un solo paese. La conferenza episcopale irlandese è una sola. Non ci sono diocesi del Nord e diocesi del sud. La mia arcidiocesi è quella di Armagh in cui circa il 60% delle persone sono nel Nord Irlanda, il 40 nella Repubblica. Io vivo in una parrocchia che sta nel Nord Irlanda. Quindi la Chiesa non ha bisogno di una frontiera tra le due parti. E noi siamo sinceramente preoccupati perché non vogliamo avere quello che viene definito come un hard border, un confine vero e proprio che avrebbe un impatto forte sulla comunità di confine».
Qual è la principale conseguenza di un ritorno alla frontiera?
«La libertà di movimento. Come Chiesa vogliamo avere rassicurazioni perché la possibilità di muoversi tra il Nord e la Repubblica possa rimanere uguale a oggi».
Una Chiesa sola ma alcune importanti differenze nelle due comunità. Ci può spiegare quali sono?
«Le differenze tra i cattolici del Nord e del sud sono essenzialmente culturali. A Nord i cattolici sono minoranza in uno scenario in cui la maggioranza sono protestanti (unionisti o loyalisti). L’identità cattolica in Nord Irlanda è vista come qualcosa di legato agli anni del conflitto (in cui il settarismo ha colpito i cattolici, ndr) e all’apporto di solidarietà che la comunità cattolica ha portato nel periodo dei Troubles. La Chiesa nella Repubblica viene invece descritta dalle persone spesso come dominante. L’Eire viene così spesso definito come uno “Stato cattolico”. Quindi dal punto di vista culturale ci sono due storie diverse. Ma io non sono del parere di forzarle troppo».
Che cosa accomuna tutta l’Irlanda nel 2017?
«Credo che l’impatto della secolarizzazione oggi sia lo stesso. Di conseguenza le questioni morali e sociali e le sfide che essere pongono sono uguali. Certo, il matrimonio egualitario non è legale a Nord ma un referendum tre anni fa lo ha legalizzato in Eire. Ma il dibattito sull’aborto è aperto al momento in entrambe le parti del paese».
E il prossimo 5 marzo a Dublino anche la Chiesa cattolica verrà ascoltata nella Citizen’s assembly, l’assemblea composta da CENTO rappresentanti dei cittadini della Repubblica d’Irlanda in cui il no all’aborto è sancito nella costituzione all’ottavo emendamento dell’articolo 40 in cui si dice che il nascituro e la madre hanno gli stessi diritti. Che cosa direte in questa occasione?
«Ribadiremo quanto già espresso in occasione della Giornata per la vita lo scorso 2 ottobre: l’ottavo emendamento è prezioso perché, ci invita a quella che Papa Francesco chiama “la rivoluzione della tenerezza”: ci dice che la vita del nascituro non è qualcosa di disponibile o su cui si può decidere».