Ben quattro facoltà romane di Medicina –Sapienza, Policlinico Gemelli, Tor Vergata, Campus Biomedico– sono scese in campo con un secco “no” alla proposta di rendere vincolanti le Disposizioni anticipate di trattamento (Dat) nella legge sul fine vita in discussione alla Camera.
La questione è seria, il testo base prevede che il medico sia vincolato dalle disposizioni rilasciate dal paziente -chissà quanto tempo prima-, anche quando vi sia la richiesta di sospensione di nutrizione ed idratazione. I medici, quindi, saranno obbligati a far morire di fame e di sete i loro pazienti dato che cibo e acqua non sono terapia, ma supporti esterni che «soddisfano esigenze fisiologiche», come ha ribadito tre anni fa il Consiglio d’Europa.
Autorevoli esponenti della medicina italiana si sono pronunciati. «Questa legge mina in profondità l’aspetto più cruciale della professione medica, la relazione medico-paziente», ha affermato Sebastiano Filetti, preside della facoltà di Medicina dell’Università La Sapienza. Preoccupazione anche per il dott. Giorgio Minotti, oncologo e preside della facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Campus Bio-Medico di Roma: «Viene scardinato così tutto quello che insegniamo agli studenti circa la relazione medico-paziente. I nostri medici non sono preparati a fronteggiare un cambiamento del genere. E c’è tutto un mondo intorno della famiglia che non viene tenuto in alcun conto». E ancora: «L’introduzione delle Dat vincolanti per il medico, riduce il suo ruolo a quello di un erogatore di prestazioni richieste. Il testo, così com’è concepito, è completamente cieco anche nei confronti dei progressi della medicina. Un paziente che non è curabile oggi, lo potrebbe essere fra due o tre anni. Quindi anticipare a oggi una decisione, di due o tre anni, significa negare la medicina come scienza che progredisce e fornisce nuove opzioni terapeutiche».
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«Non si possono trasformare gli ospedali in supermarket. Dove un paziente viene e indica la cura cui vuole essere sottoposto, “o questa o niente”. Se stanno così le cose mi tolgo il camice e dico “fate voi”. La vera domanda è “chi forma l’opinione del paziente?”», ha dichiarato a sua volta il dott. Antonio Pisani, neurologo a Tor Vergata. «Il testo non parla mai direttamente di eutanasia assistita, ma il timore è che, tra le righe, ci si avvii verso quel tipo di strada», ha proseguito. «A leggere questo testo sembrerebbe che una persona sottoposta a un trattamento medico possa prendere la decisione su ‘quanto’ farsi curare, allo stesso modo che un cliente che compra un’assicurazione può inserire o meno degli optional. Ma ciò non è, secondo me, a discrezione del malato». A sostegno anche Pierluigi Granone, in rappresentanza del Policlinico Gemelli. L’Ordine dei Medici ha rivendicato il «rispetto dell’autonomia del Medico, perché il nostro compito è di stare vicini alle persone difendendo la nostra autonomia, requisito imprescindibile. È in questo senso che abbiamo sempre interpretato il principio di autonomia: libertà di poter fare quello che, in scienza e coscienza, si ritiene di dover fare».
Di morte della relazione medico-paziente ha parlato anche la prof.ssa Maria Luisa Di Pietro, già componente del Comitato nazionale di bioetica, direttrice del Center for Global Health Research and Studies all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. «Se questo Testo unificato dovesse divenire legge ciò che farà la differenza tra un chirurgo con il bisturi in mano e un potenziale assassino non sarà la finalità terapeutica dell’atto del primo alla ricerca del bene del paziente, ma il consenso di quest’ultimo. Non mi soffermerò ad analizzare quanto questo “consenso” sia spesso disinformato, non perché non vengano date le informazioni quanto piuttosto per la condizione di essere paziente. Anche la capacità di comprendere è condizionata dalla malattia con tutto il suo bagaglio di paura, di attesa e di speranza». Il soggetto deve decidere «sul suo futuro di paziente, affetto non si sa di quale malattia. E’ un’assurdità decidere ora per il domani e al di fuori del contesto reale (il che renderà le disposizioni difficilmente interpretabili)». Senza contare la non competenza del soggetto sugli innumerevoli scenari clinici possibili e sui loro trattamenti. Di fatto, «sospendere nutrizione e idratazione significa sottrarre al paziente anche un minimo di supporti vitali, senza essi si muore. Si deve leggere “eutanasia”, che non è solo quella attiva ma anche passiva o per meglio dire omissiva (non dare qualcosa al paziente, che di conseguenza muore)».
D’altra parte non sfugge che i medici più favorevoli sono attivisti pro-eutanasia, Carlo Alberto Defanti (coinvolto nel caso Englaro) e Mario Riccio (coinvolto nel caso Welby). Il “diritto all’autodeterminazione” diventa automaticamente obbligo per i medici di agire come vogliono i pazienti, andando ad interrogare la voce “omicidio del consenziente” del codice penale. Come ha ben spiegato il sociologo Giuliano Guzzo, l’autodeterminazione del paziente è già prevista come principio giuridico, invece il biotestamento «costituisce una formalizzazione di volontà terapeutiche che non sono – come viene spesso raccontato – quelle del paziente che le sottoscrive, bensì quelle del paziente in quel preciso momento». Consapevoli, come è stato accertato, che le stesse persone manifestano intenzioni mutevoli nel corso del tempo. E’ famoso il caso di Richard Rudd, firmatario di un testamento biologico prima dell’incidente in moto che lo ha paralizzato: quando i medici stavano per staccare la spina, come da lui stesso richiesto quando era in condizioni di salute, Rudd è riuscito a battere la palpebre manifestando di aver cambiato idea. Lui è riuscito a comunicare le sue nuove intenzioni, ma tutti gli altri?
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E’ un problema comune, come ha testimoniato Mauro Zampolini, direttore del Dipartimento di riabilitazione Asl 3 della Regione Umbria e dell’Unità gravi cerebrolesioni all’ospedale di Foligno. «Non possiamo non sapere che in generale per tutti i pazienti incapaci di comunicare c’è un problema oggettivo che riguarda la volontà espressa in passato», ha dichiarato. «Non a caso tanti malati di Sla – ovvero pazienti lucidi fino alla fine – che un tempo avevano dichiarato di non voler essere salvati, quando invece stanno per morire chiedono la tracheotomia. Quando una persona entra davvero nella condizione di malattia grave, anche se prima aveva chiesto di morire alla fine sceglie di vivere». Di questo ha anche parlato il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, intervenuto recentemente.
E’ legittimo che il paziente possa farsi male, possa rifiutare terapie proporzionate che lo farebbero guarire, che possa rifiutare cibo e acqua? Se la risposta è sì, allora si tratta di una violazione verso la volontà del medico di prendersi cura del paziente. E non esiste alcun diritto del paziente di pretendere che un altro cittadino e lo Stato diventino complici del suo suicidio, oltretutto quando il medico è professionalmente ed eticamente chiamato a salvaguardare la vita o alleviare il più possibile le sofferenze. La vita non è disponibile e nessuno è autorizzato ad uccidere. Nemmeno se supplicato.