Il viaggio per incontrare i nuovi pastori italiani: Guido Gallese di Alessandria, che ha reso istituzionale la presenza di laici e donne tra i consiglieri del vescovo. «Questo è un momento veramente facile per evangelizzare» Quando Benedetto XVI nell’ottobre 2012 l’ha designato pastore di Alessandria, don Guido Gallese, con i suoi cinquant’anni, era il più giovane dei vescovi italiani. Genovese di nascita, prete per la diocesi di Genova, impegnato negli Scouts, nella sua nuova diocesi ha cercato di promuovere i laici per mettere in pratica le indicazioni contenute nell’esortazione Evangelii gaudium. Il vescovo Gallese, sui tempi che viviamo, dice parole che suonano distanti dall’approccio dei «profeti di sventura»: «Questo è un momento veramente facile per evangelizzare. I giovani di oggi sono senza ideologie, sono pronti… Manchiamo soltanto noi ad annunciare il Vangelo».
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Lo incontriamo nel suo studio. Ripiegata sul tavolino, una piccola stola viola, pronta nel caso il visitatore senta il bisogno di confessarsi.
Come sono stati questi primi anni di episcopato?
«Un’esperienza bellissima e allo stesso tempo una crocifissione. Non ho mai fatto un ministero più ingrato nella mia vita. Ma l’esperienza è bellissima, perché ciò che mi fa andare avanti è sapere che sono stato voluto qui dal Signore. E questo dà forza, anche se le cose non vanno come spererei. È un lavoro talmente profondo che prima che dia frutti passerà tanto tempo. È il ministero del contadino. I frutti non dipendono solo da noi».
Quali le principali fatiche che ha incontrato?
«La fatica consiste sostanzialmente in questo: far sì che la Chiesa sia costituita da vere comunità cristiane. Su questo ho avuto modo di riflettere tantissimo. Talvolta mi pare che nelle parrocchie manchino elementi essenziali e costitutivi della comunità cristiana così come ci è descritta nel Nuovo Testamento. Mi capita di incontrare persone con problemi e capisco che potrebbero essere aiutate soltanto da una comunità. Quando chiedo: hai un luogo dove poter condividere questo problema di cui mi parli? Spesso mi rispondono di no. E in questo la fatica più grande è quella dei sacerdoti, che sono nella Chiesa oggi le persone più ferite di tutte».
Perché definisce i preti le «persone più ferite»?
«Ho predicato alcuni giorni fa un ritiro per laici e abbiamo fatto un po’ di condivisione. Qualcuno ha raccontato del suo servizio in parrocchia che a volte è deludente, scoraggiante, hai la sensazione di non riuscire a far presa, di non incidere. Un’altra persona ha notato come a volte troviamo fuori dalle parrocchie persone migliori di quelle che stanno dentro, o ministri della Chiesa con tratti umani carenti e scostanti. Ho risposto così: vede, lei fa servizio in chiesa, le siamo grati, ma ha una moglie che le vuole bene, una figlia, ha un lavoro. Lodevolmente viene a fare un servizio in parrocchia, e ne torna scoraggiato. Immagini una persona che ha dedicato tutta la sua vita a Gesù Cristo, ha voluto porsi al suo servizio, ci ha scommesso anche l’affettività, e poi quando svolge il suo servizio si trova a provare i suoi stessi sentimenti. Però non torna a casa e dice: va bene ho mia moglie e i miei figli, non ha un altro lavoro nel quale riesca. È una specie di fallimento. O si è agli apici della spiritualità, stile curato d’Ars, e si passa attraverso queste esperienze con una fede pazzesca, oppure si rischia di diventare scostanti, e si mostrano dei tratti poco piacevoli nel proprio ministero e in qualche modo si deve compensare, non si regge psicologicamente».
Sono cambiati i preti o è cambiata la società?
«Oggi il prete è veramente nella Chiesa la figura che porta il peso più grande, in un’epoca in cui abbiamo avuto un grande cambio: prima c’era per così dire una cultura “monomarca” omogenea, di stampo cattolico, nella quale c’erano i più caldi e i più tiepidi, ma ci eravamo dati quattro regole comuni e si andava avanti insieme. Adesso con quelle quattro regole non vai da nessuna parte. Viviamo in un mondo multiculturale, multireligioso, multi… tutto. È finita l’epoca delle quattro regole comuni, che in realtà erano più regole per essere buoni cittadini che buoni cristiani. Quante confessioni ho ascoltato di persone che mi dicevano: padre sono un buon cristiano, non uccido, non rubo, non tradisco mia moglie, come se il cristianesimo si riducesse a questo. Nella fatica del cambiamento il perno è proprio il sacerdote, che è come il cardine della porta, deve portare il movimento ma è anche il punto debole».
Lei insiste sulle comunità cristiane. Come si fa a farle nascere? Non bisogna puntare anche sui laici?
«Sicuramente sì. Dobbiamo proprio cambiare mentalità. Tante entità della nostra Chiesa mancano degli elementi caratteristici e fondamentali di una comunità cristiana così come li leggiamo nel Nuovo Testamento. Che sia necessario puntare sui laici questo è evidentissimo. Un conto è se certe cose te le dice un prete, un conto è se te le dice un laico, con il quale ti identifichi. Da viceparroco a Genova tenevo un corso di preparazione al matrimonio che era sempre preceduto da tre serate bibliche. Quando il vescovo mi ha spostato ho detto ai miei collaboratori laici: guardate, dovrete fare tutto voi, anche la parte biblica. E una di loro mi ha risposto: “Ma tu sei fuori! Non abbiamo studiato teologia”. Ho risposto: sono convinto che lo Spirito vi darà parole… Così hanno cominciato, e alla fine del primo corso i fidanzati hanno chiesto: “Non è che potremmo vederci ancora? Ci sono piaciute particolarmente le spiegazioni del Vangelo e della Bibbia”. Il problema non è solo nel clero, ma anche nei laici, perché se tu chiedi certe cose, i laici ti rispondono: ma tu sei fuori!».
Che cosa ha fatto ad Alessandria per coinvolgere i laici?
«Ho messo un professore di filosofia in pensione, bravissimo con gli studenti, a capo dell’ufficio scuola. Poi ho nominato alla pastorale giovanile una ragazza, la prima direttrice donna, e non suora, alla guida di un ufficio per la pastorale giovanile e vocazionale in Italia. Alle comunicazioni sociali ho messo un giovane di 34 anni . Quando il papa ha scritto Evangelii gaudium a me hanno colpito le sue parole su laici e donne da coinvolgere anche dove si prendono le decisioni importanti nella Chiesa. Ci ho pensato e pregato molto e così un paio d’anni fa, ho scritto una lettera al Papa per chiedergli che cosa ne pensava dell’idea di includere laici e donne nel consiglio del vescovo, un luogo clericale per eccellenza. Ho chiesto a Papa Francesco che cosa ne avrebbe pensato se avessi aggiunto una suora, un laico e una laica oltre al collegio solito dei consultori sacerdoti».
Che cosa le ha risposto il Papa?
«Non ho avuto il coraggio di spedire la lettera, l’ho tenuta in borsa tre mesi, poi un giorno sono andato a Roma a un campo di spiritualità Scout e la messa conclusiva era dentro il Vaticano, nella chiesa di santo Stefano degli Abissini, a pochi passi da Santa Marta. Uscendo sono passato e ho lasciato la busta per il Papa. Quella stessa sera, mentre stavo tornando ad Alessandria in macchina, ho ricevo la telefonata di Papa Francesco. Che mi ha detto: “Ho letto la sua lettera, faccia pure. L’importante è che lasci al collegio dei consultori le sue prerogative secondo il Codice di diritto canonico”. Ma non è stato facile, ci è voluto del tempo. Dopo circa un anno ce l’ho fatta e ho istituito con un decreto questa figura giuridica nuova, il “consiglio diocesano permanente” che è un luogo molto bello di coinvolgimento dei laici. Ha il compito di consigliare il vescovo e oltre a tutti i sacerdoti consultori, ci sono alla pari una suora, un laico, e una laica. Sono contento della scelta, ci credo molto. Funziona e poi fa bene. Per la pastorale giovanile e vocazionale ho scelto una ragazza di trent’anni. Devo dire che ha un modo diverso di muoversi, ha un approccio interessante, anche al tema vocazionale. È diverso da quello che abbiamo noi, è intelligente e soprattutto è appassionato! Con quella passione che talvolta si fa fatica a trovare tra noi preti».
Come si annuncia il Vangelo alle giovani generazioni post-cristiane?
«Che cosa tocca il cuore di un giovane? L’incontro con una comunità, quando uno vede e dice: guarda questi come si vogliono bene! È stato il criterio seguito fin dall’inizio della Chiesa. “Da questo sapranno che siete miei amici, se avrete amore gli uni per gli altri”, ha detto Gesù. Quindi la comunità è veramente il punto che attrae, il vedere persone che danno una testimonianza bella, gioiosa, che sanno anche divertirsi, che fanno un’esperienza affascinante. La vita cristiana attrae. E questo è un momento veramente facile per evangelizzare. Non so se c’è stato un momento così facile come quello che viviamo ora. Nella mia vita sicuramente no, perché i giovani di oggi sono senza ideologie, sono… pronti. Manchiamo soltanto noi ad annunciare il Vangelo. Ho in mente l’esperienza fatta durante il Giubileo con un viaggio a Roma per le scuole, due pullman di studenti che abbiamo accompagnato. Prima avevano un atteggiamento di sufficienza, poi si sono coinvolti quando è arrivato il Papa all’udienza. Alla fine ho celebrato una messa conclusiva e se uno non voleva, non veniva. C’erano tutti. Con un silenzio e un rispetto, sono rimasto colpito. Ma chi l’avrebbe mai detto! Ai miei tempi non sarebbe stato così».
Come è stata recepita nella sua diocesi l’esortazione sulla famiglia e il matrimonio, Amoris laetitia? Ci sono state difficoltà per applicarla?
«Se per recepita intende riferirsi alla disciplina sacramentale, vivevamo già nella giungla prima del documento, dunque non si sente differenza…»
Forse sarebbe un’occasione per far chiarezza in quella che lei chiama “giungla”?
«Dico questo: noi ci siamo ridotti a fare i carabinieri del sacro, e non è esattamente il nostro ruolo come pastori. Su questo sono proprio d’accordo con il Papa, perché sento, mi sono sempre sentito, in un ruolo sbagliato a fare il carabiniere del sacro. Attenzione, ho sempre osservato alla lettera l’insegnamento della Chiesa, e ho anche avuto l’esperienza che quando accompagni le persone e spieghi bene le cose, queste capiscono. Detto questo però sono anche convinto che noi non possiamo mettere tutte le nostre energie per far rispettare delle regole quando in realtà manca il cuore. Quel cuore che dovrebbe guidare al rispetto delle regole. Abbiamo perso il cuore, l’essenza. Bisogna maturare su molte cose… Pensiamo al padrino e madrina: chi di loro oggi fa quello che sarebbe previsto, cioè un accompagnamento spirituale? Uno su mille? E noi stiamo lì a fare le guerre in trincea allontanando persone da Cristo per un principio, quando questo principio è fine a se stesso, perché poi nessuno fa davvero il padrino e la madrina, anche quelli che sono nelle condizioni di poterlo fare. ».
E come si recupera?
«Innanzitutto facendosi delle domande. Questo è veramente pastorale? Dobbiamo chiederci se ha senso avere istituto dei padrini e madrine, e avere degli scontri con le persone, anziché usare dello stesso spazio per un incontro e un avvicinamento a Cristo. A me interessa molto che si impari ad amare, e vista la situazione com’è mi sembra che abbiamo idee molto difformi e sia difficile avere una disciplina comune. Il problema è prima rimettere in piedi il senso della comunità, dopo l’esigenza di una disciplina comune verrà».
Rispetto a trent’anni la famiglia oggi è profondamente cambiata e appare decisamente in crisi. Amoris laetitia indica il discernimento caso per caso…
«Sì, bisogna sempre vedere il singolo caso… le situazioni della vita sono diverse, al sacerdote è chiesto un grande lavoro per discernere. Ma la vera messa in pratica di Amoris laetitia per me è il corso per operatori al servizio delle famiglie ferite che abbiamo istituito, nell’ambito del rinnovamento del processo matrimoniale. Ho deciso di istituire il tribunale diocesano per le cause di nullità, come previsto dal motu proprio del Papa e abbiamo preparato gli operatori. Sento il bisogno di essere vicino al popolo di Dio in questo processo, per me il tribunale regionale era distante non da un punto di vista chilometrico, ma pastorale. Questo lavoro di attenzione alle famiglie ferite è importante perché crea un clima nel quale si arriva poi anche a dettagliare con più chiarezza, e condivisione vera le norme, nel profondo, verso una disciplina comune pur nella diversità dei casi della vita».
Come la Chiesa italiana sta recependo, secondo lei, il magistero di Papa Francesco?
«Il Papa a volte ha uno stile che ci mette un po’ in difficoltà. La categoria sulla quale si è sentita meno la misericordia è quella dei pastori. I vescovi a volte sono in difficoltà perché la gente trova esempi molto belli nel Papa ma talvolta il messaggio che passa sui media è diverso da quello che in realtà Francesco ha detto. Non vedo opposizione o resistenza al Papa. Certo c’è sempre stato un atteggiamento critico nei confronti del Papa, non ho mai visto nella Chiesa prendere come oro colato le parole del Papa, ma non soltanto di Francesco: non l’ho visto con Giovanni Paolo II, né con Benedetto XVI. In fondo è anche sano che si faccia un po’ di valutazione critica su ciò che viene detto e poi è sano che in questo contesto dialettico si arrivi a una adesione profonda al magistero del Vescovo di Roma. Francesco chiede un cambiamento interiore di approccio e mentalità, e dà per supposto e acquisito uno stile di Chiesa che non c’è nelle nostre comunità. Io, che sono d’accordissimo con Papa Francesco, non nego che poi concretamente mi sono trovato in difficoltà».
Può fare un esempio?
«L’ho detto, come il Papa viene recepito dalla gente. La gente percepisce alcuni tratti davvero evangelici: certe volte sento predicare Francesco e dentro di me dico che questo è proprio il Vangelo! Come risuona la parola di Gesù, lo sento collimare. Dice delle cose proprio evangeliche, che non sono facili da vivere là dove manca la comunità. È come parlare di calcio, di strategie e di schemi di attacco a uno che non sa fare lo stop di palla. Non siamo attrezzati su alcuni aspetti… più umani. Noi non abbiamo una Chiesa basata sulle relazioni umane, mentre siamo bravi nell’organizzazione. Un esempio è questo: passa un certo messaggio che la gente percepisce come un “liberi tutti”: puoi fare sempre la comunione come vuoi e quando vuoi… E poi tu ti trovi in difficoltà, e se correggi un’interpretazione sbagliata passi per essere cattivo».
Al convegno di Firenze Francesco ha chiesto di lavorare su Evangelii gaudium ma erano già passati due anni dalla pubblicazione del documento. Come ha letto quelle parole?
«So che alcuni l’hanno considerato come un rimprovero alla Chiesa italiana. Io non l’ho inteso così. Siccome sono allergico ai troppi documenti, mi è sembrato che il Papa ci dicesse: guardare che Evangelii gaudium resta un testo programmatico, resta questo il riferimento, il background, lo stile di fondo, l’ambientazione di tutto il resto. Dunque non mi è sembrato un rimprovero. Quando l’ho sentito sono stato contento».