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Dossier e sgambetti al Papa a mezzo stampa, tutto già visto

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Vatican Insider - pubblicato il 10/02/17
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La drammatizzazione e l’esasperazione dei toni che accompagna certe polemiche mediatiche sull’attuale pontificato possono far pensare di trovarsi di fronte a una situazione inedita. Non è così: i manifesti per le strade di Roma in stile romanesco finto popolare (accolti dal Papa con una risata), come pure gli articoli quotidiani che, ben al di là della legittima critica, tentano di demolire qualsiasi cosa il Successore di Pietro dica o faccia, si inseriscono in una «tradizione» che vede nei media una pedina delle lotte di potere interno alla Curia e alla Chiesa. La storia recente della Santa Sede, insieme al ripetersi di alcune costanti, evidenzia però anche delle discontinuità: una di queste riguarda certamente lo stile e l’atteggiamento di coloro che collaborano più strettamente con il Pontefice, a partire dai cardinali curiali. I più autorevoli e influenti «ministri del Papa» fino all’altro ieri erano infatti abituati a discutere a tu per tu con il loro superiore, non a prenderne le distanze pubblicamente

Le tre pagine del «Corriere» 

Il 24, 25 e 26 novembre 1962, sul «Corriere della Sera» vennero pubblicati tre lunghi articoli di un giornalista già allora – meritatamente – considerato una delle più grandi firme del giornalismo: Indro Montanelli. Proprio lui, laico, aveva avuto il privilegio, nel 1959, di un colloquio-intervista con Giovanni XXIII. In quel primo, efficace ritratto, il grande giornalista e scrittore scriveva di Papa Roncalli: «Se ci fate caso, egli, parlando dei pericoli che minacciano la Chiesa e l’eredità di Gesù, non ha mai usato parole scostanti come persecutori o nemici di Dio. Pensa, probabilmente, che esistano soltanto delle creature umane che le circostanze hanno messo nella triste condizione di aver smarrito il cammino di Dio; ma temporaneamente. Non sono da respingere. Sono solo da compiangere e da aiutare con le preghiere perché lo ritrovino…». Quell’intervista esclusiva, con il pontificato roncalliano ancora in fase iniziale, era ormai dimenticata quando Montanelli scrisse i tre nuovi articoli, pubblicati dopo la conclusione della prima sessione del Concilio Vaticano II.  

Un Papa in odore di modernismo? 

Nel primo pezzo, il giornalista citava giovanili frequentazioni di Roncalli, inquadrando le novità del pontificato in quel contesto originario. E sollevando di fatto il sospetto che il Papa fosse stato un modernista. Montanelli era venuto in possesso di parte del dossier sul giovane don Angelo Giuseppe Roncalli conservato dal Sant’Uffizio, collegato all’indagine a suo tempo fatta sul vescovo di Bergamo Giacomo Radini Tedeschi, del quale il futuro Pontefice era stato segretario. Tutto si era concluso con un nulla di fatto, sia per il vescovo come pure per Roncalli. Nel primo articolo, intitolato «Restituendo la libertà all’episcopato il Papa ha rinunciato all’assolutismo», Montanelli scriveva: «Un po’ di quest’aria forse respirò il giovane Roncalli. E seguitò a respirarla anche quando, ordinato sacerdote, fu scelto come segretario del vescovo Radini Tedeschi, uomo colto e, come oggi si direbbe, “aperto”, che con Buonaiuti e i modernisti aveva avuto stretti contatti». Gli articoli del grande giornalista, oltre che scritti da par suo per stile e incisività, paragonati a certe pagine web odierne verrebbero considerati persino «moderati». Ma allora apparvero come un attacco al vetriolo, insinuante, che di fatto accusava il Papa di essere aperto al comunismo, di cedere al protestantesimo, di voler ridurre l’autorità papale, di mettere a repentaglio le verità di fede proprio perché vicino alle idee moderniste con le quali sarebbe stato in contatto in gioventù. Giovanni XXIII ci rimase molto male e annotò in quei giorni: «Vedere se non sia il caso di rispondere a tante malignità, studiate e perniciose».  

«Sono stato indotto» 

Montanelli nel febbraio 1963, con Papa Roncalli malato ma ancora vivo, scrisse una lettera a don Andrea Spada, storico direttore dell’«Eco di Bergamo», ammettendo: «mai mi sarei permesso d’interloquire in quell’argomento se non vi fossi stato indotto…». Più di trent’anni dopo, il 9 maggio 1996, al Circolo della Stampa di Milano, mentre sedeva a fianco dell’ex segretario di Roncalli, monsignor Loris Capovilla, il grande Indro disse pubblicamente che era stato monsignor Pietro Palazzini a rifilargli «la più grande bufala» della sua vita. Era però già noto da tempo che proprio quel prelato, poi divenuto cardinale, era stato il tramite di un dossier che arrivava dal Sant’Uffizio allora guidato dal «Prefetto di ferro» Alfredo Ottaviani. Espressione di un mondo curiale romano insofferente verso alcune aperture giovannee. Non è dunque una novità nella vita recente della Chiesa che i media diventino parte diretta di battaglie combattute dietro le quinte dal mondo ecclesiastico. 

Lo stile dei collaboratori 

Une delle maggiori novità della presente stagione è invece rappresentata dal ripetersi di dichiarazioni pubbliche di cardinali «ministri» del Pontefice e suoi stretti collaboratori nella Curia romana. Le prese di distanza, anche a mezzo stampa, da parte di vescovi e cardinali rispetto ad alcune decisioni papali non sono inedite: basterebbe qui ricordare certe dichiarazioni seguite alla pubblicazione dell’enciclica di Paolo VI «Humanae vitae». Ma in quel caso si era trattato di cardinali o vescovi residenziali (o, come avvenne qualche anno prima nel caso del libretto fortemente contrario alla riforma liturgica, di porporati curiali emeriti, non più in carica). Un esempio dello stile del passato è rappresentato da Joseph Ratzinger. Non è un mistero, ad esempio, che non sempre le idee dell’allora cardinale Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, coincidessero con quelle del Pontefice, Giovanni Paolo II. I due erano legati da profonda stima reciproca, Ratzinger è stato il più longevo collaboratore di Papa Wojtyla alla guida del dicastero dottrinale ed è noto che Giovanni Paolo II non volle lasciarlo andare in pensione ai 75 anni nonostante le ripetute richieste del fine teologo bavarese. Qualche divergenza di opinione vi fu, ad esempio, in occasione del primo incontro interreligioso di Assisi. Queste differenze di vedute venivano però presentate e discusse nell’ambito del rapporto personale tra il cardinale e il Papa, nelle udienze di tabella o in incontri richiesti ad hoc. Al contrario di quanto accade oggi, con la prassi divenuta corrente, si cercherebbe invano, quando Ratzinger era Prefetto della dottrina della fede, qualche sua pubblica dichiarazione che suonasse di presa di distanze da Giovanni Paolo II. 

Il caso Pacelli 

C’è un esempio significativo, avvenuto nel secolo scorso e storicamente ben documentato, di un vivace contrasto tra il Papa e il suo primo collaboratore che avrebbe potuto portare alla scelta clamorosa della rinuncia di quest’ultimo, il Segretario di Stato Eugenio Pacelli. Correva l’anno 1931, il Concordato tra l’Italia e la Santa Sede era da poco in vigore, e i rapporti tra il governo fascista e il Vaticano erano tesissimi: Mussolini era intenzionato a sciogliere tutte le associazioni giovanili che «non dipendono direttamente dal Partito nazionale fascista o dall’Opera nazionale Balilla». In pratica, lo scioglimento di tutte le associazioni cattoliche, la confisca dei loro immobili, la chiusura dei giornali che dipendevano da quel mondo. Pio XI fece consegnare al governo italiano una nota ufficiale di protesta e sospese i rapporti. Si vociferò di una possibile rottura dei rapporti diplomatici tra Santa Sede e Italia: questa era la posizione di Pio XI, deciso a manifestare con un gesto clamoroso la sua contrarietà verso le iniziative del governo fascista. Papa Ratti redasse una nota durissima da pubblicare su «L’Osservatore Romano».  

«Questo lo fa senza di me» 

Durante un’udienza piuttosto concitata il Pontefice sottopose a Pacelli quel testo. Il cardinale, rispettoso ma fermo, rispose: «Vostra Santità è il Papa, e può fare questo atto: ma se lo fa, lo fa senza di me». Il Segretario di Stato non era d’accordo, e disse a Pio XI che avrebbe lasciato l’incarico nel caso la nota fosse stata pubblicata. «Che cosa c’è che non le va?», chiese allora Pio XI. I due si misero a discutere e il colloquio proseguì per quasi due ore. Alla fine il redattore del quotidiano vaticano, rimasto in attesa del visto per le bozze, si ritirò senza averlo ottenuto. Il testo non venne pubblicato. Dopo quel colloquio si sparsero voci incontrollate su un possibile cambio ai vertici della Segreteria di Stato. Ma Pio XI stimava Pacelli e alla sua domanda se si fosse pentito di averlo nominato, rispose: «Io ritengo che sia la più grande grazia della mia vita averla al mio fianco…». 

Quelle parole di Sodano 

Un episodio per certi versi simile sarebbe avvenuto anche in tempi molto più vicini a noi, quasi alla fine del pontificato wojtyliano, quando Giovanni Paolo II era già molto malato. Il condizionale è d’obbligo, perché in questo caso specifico non c’è documentazione storica. Ma diverse fonti sono concordi nel confermare che Papa Wojtyla e alcuni collaboratori dell’entourage polacco più stretto, avevano pensato di affiancare al Segretario di Stato Angelo Sodano un pro-Segretario di Stato nella persona del cardinale Giovanni Battista Re, destinato così a succedergli. Sodano avrebbe fatto presente al Papa che non sarebbe rimasto in una situazione che agli occhi di tutti sarebbe apparsa un commissariamento. E non se ne fece nulla. Esempi di vecchio stile curiale: i collaboratori più stretti e autorevoli del Pontefice, alla guida dei dicasteri più importanti, esprimevano le proprie posizioni negli incontri a tu per tu con il loro superiore. Disposti, in qualche raro caso, persino a rinunciare al loro incarico pur di difenderle. Senza che tutto questo si trovasse alcun riflesso in dichiarazioni pubbliche, come invece accade oggi

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