A volte «l’idea supera la realtà», si potrebbe dire, rovesciando uno dei principi della Evangelii gaudium, e la materia fattuale di un caso giudiziario viene travolta dalla forza del simbolo: solo così si può comprendere la drammatica vicenda di Asia Bibi, la donna cristiana 45enne condannata a morte per blasfemia in Pakistan, reclusa da innocente in un carcere pakistano dal 2009.
In un caso legale che va avanti da ormai otto anni, Sebastian Shaw, arcivescovo cattolico di Lahore, offre a Vatican Insider la sua chiave di lettura: «La storia di Asia Bibi è divenuta una questione simbolica, che esula dalla realtà fattuale del caso. Un caso troppo più grande di una povera contadina del Punjab, assurta a celebrità mondiale», spiega. Questo ha attirato speculatori di ogni genere: «Numerose organizzazioni si sono interessate alla vicenda, ma in modo funzionale al loro approccio e a un tornaconto politico ed economico. Sono forti le pressioni politiche e di gruppi religiosi. In una situazione così complessa, per i giudici è divenuto difficile giudicare serenamente», rileva.
«Molti fedeli stanno pregando per la sua salvezza, mentre i radicali islamici invocano la morte della donna. Noi chiediamo solo giustizia: sappiamo che è innocente. Persone come Shahbaz Bhatti e Salman Taseer sono morti per difenderla. Troppo sangue innocente è stato versato», osserva Shaw. La donna cristiana è in attesa del definitivo verdetto della Corte Suprema. Secondo alcune fonti, l’udienza davanti al tribunale potrebbe arrivare entro la fine di marzo, ma i legali della donna, consultati da Vatican Insider, non confermano i rumors e si dicono «in attesa di un comunicazione della cancelleria».
Il caso di Asia è paradigmatico mentre in Pakistan è tornata di attualità la questione relativa alla controversa legge di blasfemia: «Il nostro scopo, condiviso da organizzazioni della società civile e da molti leader religiosi musulmani, è evitare di colpire innocenti, di tutte le religioni. Per questo da tempo chiediamo al governo di adottare misure che impediscano l’abuso della legge di blasfemia», riferisce Shaw. «Speriamo che tutte le forze sane del paese – prosegue – si uniscano per questo obiettivo. Sarebbe una vittoria per tutti».
La cosiddetta «legge di blasfemia» è costituita dai commi “b” e “c” all’articolo 295 del Codice penale, introdotti nel 1986 per punire con la pena capitale o il carcere a vita il vilipendio al Corano o al Profeta Maometto. È uno strumento legislativo tirato in ballo impropriamente in controversie di tipo privato (si calcola che ciò avvenga nell’80% dei casi) e divenuto una “spada di Damocle” che pende sul capo delle minoranze religiose, spesso vittime di tale ingiusto meccanismo.
Il senatore musulmano Farhatullah Babar, rappresentante della speciale Commissione per i diritti umani del Senato, ha introdotto ufficialmente nel Parlamento del Pakistan il tema della ricerca di strade per fermare l’abuso di quella legge. Voci di leder politici e religiosi si sono alzati a favore delle modifiche procedurali ma, d’altro canto, non mancano gruppi radicali che la giudicano intoccabile. Il dibattito è aperto anche nell’esecutivo: se il Primo Ministro Nawaz Sharif si è pronunciato di recente per il rispetto dei diritti delle minoranze, il ministro per gli affari religiosi Sardar Muhammad Yousuf ha negato che il governo promuoverà modifiche alla normativa, mentre secondo il ministro degli interni Chaudhry Nisar Ali Khan «è scorretto dire che le minoranze religiose sono le più colpite dall’abuso della legge di blasfemia».
Secondo i dati, infatti, i cittadini musulmani rappresentano il 70% degli imputati per blasfemia. Va detto però che, in un paese al 95% musulmano, i cristiani, che sono solo l’1,5% della popolazione, costituiscono il 26% delle vittime di blasfemia, con una incidenza proporzionalmente molto più alta. Quello che il ministro dimentica, però, è la prassi della «punizione collettiva» su interi quartieri cristiani, in attacchi promossi come diretta conseguenza di presunte accuse di blasfemia verso un solo cristiano. Molti di questi casi sono rimasti storici esempi dell’impunità garantita dal sistema giudiziario.
A Gojra, città del Punjab, nel 2009 otto cristiani furono bruciati vivi (inclusi una donna e un bambino) nel rogo appiccato all’intero quartiere cristiano. E solo un fortunato avviso – che permise ai residenti di fuggire – ha evitato una simile tragedia nel 2013 a Lahore: la Joseph Colony (quartiere abitato esclusivamente da cristiani) fu data alle fiamme e 178 case vennero rase al suolo, mentre il cristiano Sawan Masih veniva arrestato per blasfemia. Ma mentre Masih è stato condannato a morte, per l’attacco alla Joseph colony non vi sono colpevoli: pochi giorni fa un tribunale ha assolto i 115 musulmani accusati dell’assalto, in quella che il quotidiano Daily Times di Lahore ha definito «una parodia della giustizia».