«Di fronte a questa situazione non provo rancori, ma dispiacere e dolore. Starei volentieri in silenzio come un padre di fronte a un figlio che è caduto in qualche disgrazia». Sono parole usate dal vescovo di Padova, Claudio Cipolla, durante la conferenza stampa sul caso di don Andrea Contin. Com’è noto il sacerdote, parroco stimato dai fedeli, è stato accusato – ed ha ammesso – di aver organizzato orge e di aver abusato della fragilità di alcune donne che si stavano separando dai mariti per avere con loro rapporti sessuali.
In queste settimane verbali con le deposizioni, interviste, racconti a volte conditi con tocchi di perversa fantasia hanno rappresentato il pane mediatico quotidiano di giornali, tv, talk show. È un riflesso condizionato, prevedibile, scontato: se predichi bene ma razzoli male (in questo caso molto male), quando il tuo male viene scoperto, non soltanto ti si ritorce addosso ma diventa una contro-testimonianza evangelica dalle conseguenze incalcolabili. Uno tsunami inarrestabile.
Si dirà: è un conseguenza dalla quale non si scappa. I racconti zeppi di dettagli piccanti sulle perversioni del sacerdote, sul suo bagaglio di giocattoli erotici, sulle videoregistrazioni delle orge, sul coinvolgimento di un altro prete noto alle cronache nazionali per essere stato presentato come il «direttore spirituale di Belen Rodriguez», erano forse inevitabili. Perché questo è ciò che si attendeva il pubblico.
A scanso di equivoci va detto che ci troviamo di fronte a fatti gravissimi, pur se avvenuti tra adulti più o meno consenzienti. Non si è trattato di un momento di debolezza, di solitudine, di una o di più cadute, vissute come tali da parte di un prete incapace di resistere alla tentazione. È questo un caso da manuale di quello che Papa Francesco chiama peccato che si trasforma in corruzione. Il peccatore è colui che riconosce il suo peccato, chiede perdono e permette alla grazia di Dio di aiutarlo a rialzarsi. Il corrotto fa diventare il suo peccato un sistema, vive una doppia vita e si crede giustificato. La differenza non la fanno la gravità o la frequenza dei peccati, né il fatto che questi peccati possano diventare reati. La differenza la fa il cuore, l’atteggiamento della persona. Il peccatore è un mendicante, umile ed umiliato dopo il suo peccato. Il corrotto è arrogante, giustifica se stesso, ha costruito attorno a sé una corazza e ha fatto diventare il suo peccato abitudine, giustificandolo.
Come sia possibile per un prete fare ciò che ha fatto don Contin e celebrare quotidianamente la messa, svolgendo pure un’apprezzata attività pastorale, è una domanda che non trova risposta se non riflettendo sull’abisso del mistero del male. Bene ha fatto dunque il vescovo a non usare neanche una parola che potesse suonare come giustificatrice, e a non scaricare responsabilità sui contesti della nostra società liquida che sembra aver perso ogni pudore. Come pure ad annunciare l’attivazione di strumenti in grado di velocizzare le segnalazioni per evitare lungaggini ed eccessi di prudenza quando si tratta di intervenire.
Ci sono però delle domande che restano aperte e che non riguardano né le procedure canoniche né la trita e ritrita questione del celibato sacerdotale, sollevata ogni qual volta un prete finisce agli onori della cronaca per questioni di sesso, ma del tutto fuori luogo: il clero non ha infatti l’esclusiva di certe perversioni e la ricerca compulsiva di esperienze trasgressive vede protagonisti molti soggetti regolarmente sposati. Le domande che restano aperte non riguardano nemmeno la formazione dei nuovi sacerdoti, che in alcuni casi oggi si presentano umanamente fragili, con problemi legati alla sessualità talvolta sublimati ma comunque irrisolti.
Le domande che restano aperte riguardano invece le relazioni di amicizia tra i sacerdoti. Che un disagio, una crisi di identità, siano potuti sfociare in una doppia vita qual è stata quella di don Contin è questione che non può far dormire sonni tranquilli alla parrocchia di cui era titolare, ma nemmeno al presbiterio della diocesi di Padova e ai suoi pastori. Le mele marce esistono e sarebbe fin troppo facile rifugiarsi nella statistica per dire che su settecento preti, la stragrande maggioranza dei quali si spende con dedizione per il popolo di Dio, un caso come quello di don Andrea ci può stare. Come pure può essere scontato ricordare che a fronte di questo male e di questa perversione che fanno così notizia c’è un’enorme quantità di bene che non fa notizia. Papa Francesco ha usato tempo fa parole molto dure per descrivere il fenomeno, parlando di «coprofilia» dei media che alimenta la «coprofagia» di un certo pubblico.
L’altra, grande e ineludibile domanda è più profonda e riguarda il male, il peccato. Da chi non è cristiano, o comunque è battezzato ma lontano dall’esperienza di fede, ci si possono aspettare, di fronte a casi come questi, non soltanto giudizi taglienti di condanna, ma anche generalizzazioni, scherno, derisione. Ma chi è cristiano non può chiamarsi fuori dal dramma provocato dalle perversioni di don Contin. Perché quella ferita è una ferita in famiglia, riguarda dolorosamente tutti i membri della comunità cristiana. Non ci si può chiamare fuori magari mettendosi su un piedistallo a giudicare, come se il mistero del male, il peccato, non avesse a che fare con le nostre vite. Se, per grazia ricevuta, il peccato non ci ha intaccato ai livelli descritti nei morbosi dettagli della cronaca di questi giorni, dovremmo comunque mantenere aperta quella ferita. Imparando, proprio da casi dolorosi come questi, che ognuno di noi ha bisogno di relazioni umane vere e di amicizia. Ha bisogno di perdono, di misericordia. Ha bisogno di essere abbracciato, amato, e quotidianamente risollevato. Ha bisogno di riconoscersi bisognoso. E per questo di fronte alla cronaca a luci rosse non può che chiedere misericordia e perdono, pregando innanzitutto per le vittime, per i preti coinvolti, per la gente semplice rimasta scandalizzata.