Un lavoro durato 20 anni, ma che ha portato ottimi risultati. Se fino a due decenni fa, infatti, la dipendenza da droghe e l’abuso di alcol in età adolescenziale era un problema che affliggeva l’Islanda, oggi non lo è più. Dal 1998 al 2016, la percentuale di giovani, compresa tra i 15 e i 16 anni, che abusa di alcol è scesa dal 48% al 5%, mentre quella che fuma cannabis dal 17% al 7%. Anche i fumatori di sigarette sono calati drasticamente: dal 23% al 3%. Un calo che ha portato i giovani dell’isola a diventare i più salutisti d’Europa (The Huffington Post, 26 gennaio).
Ottenere un simile risultato, in grado di ribaltare la classifica negativa che vedeva i giovani islandesi come i maggiori consumatori di droghe e alcol d’Europa, è stato possibile solo grazie a interventi drastici e diretti: introduzione del coprifuoco, una maggiore collaborazione tra istituti scolastici e genitori, l’introduzione di divieti e la creazione di attività extrascolastiche che coinvolgessero gli adolescenti a tempo pieno.
LE DOMANDE DI MILKMAN
Un piano avviato nel 1992, ma che ha le sue radici in una tesi di dottorato scritta anni prima a New York dal professore di psicologia statunitense Harvey Milkman, oggi docente presso l’università di Reykjavik. Una tesi che metteva in relazione il consumo di droghe e alcol e la predisposizione allo stress di alcune persone. Dopo la sua tesi, Milkman venne inserito in un team di ricerca dedito a contrastare l’abuso di droghe.
Nel 1991, Milkman venne inviato in Islanda per diffondere i suoi studi. La sua idea colpì gli islandesi, che gli chiesero di iniziare un progetto con i giovani isolani. Nel 1992, il questionario del professore fu sottoposto a tutti gli adolescenti di età compresa tra i 15 e i 16 anni. Esperimento ripetuto anche negli anni seguenti. Nel questionario venivano poste domande semplici e dirette, tipo: “Bevi alcolici?”, “Ti sei mai ubriacato?”, “Hai mai fumato?”, “Quanto tempo trascorri con i tuoi genitori?”, “Svolgi attività?”.
MINORE DIPENDENZA
Quel che emerse dal questionario fu un risultato negativo: circa il 25% dei ragazzi affermava di fumare quotidianamente e il 40% ammetteva di essersi ubriacato appena un mese prima. Ma quel che colpì Milkmna fu un altro risultato: dal questionario, infatti, constatò che chi praticava sport o frequentava corsi, e aveva un buon rapporto coi genitori, era meno propenso all’utilizzo di droghe e alcol.
IL COPRIFUOCO
Da quelle semplici domande nacque, su iniziativa del governo, Youth in Iceland, un programma nazionale di recupero che coinvolgeva direttamente genitori e scuole. Per prima cosa vennero eliminate le pubblicità di sigarette e bevande alcoliche, i minori di 18 anni non potevano più comprare sigarette e chi non aveva 20 anni non poteva acquistare alcol. Venne introdotto un coprifuoco agli adolescenti tra i 13 e i 16 anni: rientro a casa alle 10 di sera in inverno, a mezzanotte d’estate. L’obiettivo principale, infatti, era far passare ai ragazzi più tempo possibile in casa, anteponendo la quantità alla qualità delle ore trascorse in compagnia dei familiari.
DALLO SPORT ALL’ARTE
A tutto questo si legò l’introduzione massiccia di attività extrascolastiche di ogni tipo, da quelle sportive a quelle artistiche. In questo modo si permetteva ai giovani di stare insieme e garantire loro un senso di benessere psico-fisico, lo stesso che ricercavano utilizzando droghe e abusando di alcol. Attività che coinvolgevano tutti i giovani, anche quelli meno abbienti: per loro il governo aveva predisposto degli incentivi statali.
RISCOPERTA DEI VALORI E LA CURA DI SE’
Il metodo islandese anti-dipendenza si potrebbe applicare in altri contesti europei, come ad esempio italiano?
Emiliano Lambiase, psicologo e psicoterapeuta, coordinatore dell’Istituto di Terapia Cognitivo Interpersonale, premette ad Aleteia: «Che informare sui rischi non sia un metodo funzionale per la gestione delle dipendenze, e dei comportamenti rischiosi in generale, è da anni sotto gli occhi di tutti: non ha funzionato per le malattie a trasmissione sessuale; non ha funzionato per le dipendenze; sembra che non funzioni per gli stili di vita salutari (ad esempio per la prevenzione di svariate malattie)».
«Sembra, quindi – prosegue Lambiase – che serva un altro tipo di approccio che ormai in tanti stiamo cercando di utilizzare. E cioè la riscoperta dei valori alla base dell’essere umani e della cura di sé, degli altri e delle relazioni».
ELEMENTI SANI PER OGNI INDIVIDUO
Il modello islandese, in realtà, sentenzia lo psicoterapeuta, «ha scoperto l’acqua calda. Lo sappiamo da tanto che sapersi dare delle regole, essere impegnati in attività edificanti e costruttive, avere buoni rapporti interpersonali e sani rapporti familiari sono elementi alla base dello sviluppo sano dell’individuo e della società, e per questo elementi protettivi un po’ per tutto, non solo per le dipendenze».
“DIFFICILE APPLICAZIONE IN ITALIA”
Purtroppo al di fuori dell’Islanda, sottolinea Lambiase, «sono difficili da applicare per motivi di tipo sociale e culturale (da noi forse sarebbero applicabili in un paese o una piccola provincia) e anche perché qui, come altrove, sembra che a molti piaccia lavarsi con altri liquidi o bevande, e non con l’acqua calda».
LA SPERIMENTAZIONE “PIONEER”
«Questa acqua calda (cioè gli elementi teorici di base) è alla base degli interventi educativi e preventivi che realizziamo come Progetto Pioneer e che realizzeremo nel prossimo centro che apriremo – chiamato Sisifo, apertura prevista questa primavera – per il recupero dalle dipendenze comportamentali, ma li vediamo realizzarsi in tante altre realtà, come ad esempio alcune comunità di recupero per tossicodipendenti o in delle realtà come gli Scout. Quindi, ripeto, sono cose che conosciamo già da tanto tempo, ma sono realizzabili in piccole realtà».
TROPPE VISIONI DIFFERENTI
A livello nazionale, aggiunge il coordinatore del Cedis, «sicuramente molto si potrebbe fare ma, purtroppo, ci sono tante visioni diverse per cui, oltre all’acqua calda, vediamo il proliferare di tante altre visioni e idee. E’ difficile trovare un piano unitario e, sicuramente, non sarebbe realizzabile utilizzando una modalità così normativa come in Islanda».
Detto questo, conclude Lambiase, i numeri positivi del caso Islanda vanno presi con le molle poiché il contesto socio-culturale dell’isola è particolare e andrebbe analizzata la metodologia della ricerca originale e non solo gli esiti che sono stati pubblicati.