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Com’è essere il papà di un bambino destinato a morire?

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Benoît Clermont - Gaspard - pubblicato il 27/01/17
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“Sono certo che un giorno giocheremo tutti a calcio in cielo. E Gaspard sarà centravanti. E vedrò la sua felicità, pieno di orgoglio”La testimonianza che condividiamo è stata scritta dal papà di Gaspard, un bambino francese nato con gravi disabilità. I medici pensano che la vita di Gaspard sarà breve. Suo papà ci ha rivelato un po’ di ciò che si prova di fronte a una sfida così incommensurabile, e il suo sfogo è una lezione straordinaria.

Qualche giorno fa, mentre i miei tre figli mi stavano consegnando i regali che avevano realizzato a scuola per la Festa del Papà, ho pensato al mio Gaspard e mi sono chiesto se sono stato un buon padre.

A volte, dentro di me, ne dubito. E ne dubito perché essere il papà di un bambino che si avvicina lentamente alla morte è una lunga Via Crucis. Un cammino pieno di dubbi sul senso di questa prova; pieno di pentimenti, momenti di tristezza e lotte interiori contro un egoismo che non ha il buon gusto di diminuire. Vivere con questo limite temporale terribile nella mente è spesso come remare controcorrente: ti sforzi, ma senti che vieni sempre risospinto indietro.

Per la maggior parte dei genitori esiste anche la delicata questione del lavoro. Che fare? Abbandonare la carriera e smettere di lavorare? Ma per quanto tempo? E come pagheremo l’affitto? E se vivesse più di quanto hanno previsto i medici? Tutti questi sassolini nella scarpa di ogni mattina diventano spesso spine che lacerano il cuore.


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Essere il papà di un bambino destinato a morire è preparare anche il dopo, quel dopo che spaventa. Sarà impossibile vivere come prima, perché il nostro sole, la stella della nostra casa, quello intorno al quale gira tutto, non sarà più qui a illuminare il nostro cammino. O meglio, sarà sempre qui, ma in un altro modo. E fa parte del ruolo del padre, credo, preparare questo futuro, perché gli altri nostri figli meritano il meglio, e sicuramente si sentiranno fragili per alcuni anni, dopo tutto quello che hanno vissuto accanto a Gaspard. Non penso che si possa uscire illesi da questo tipo di prova.

E c’è un’ultima cosa, l’impotenza, senza dubbio la peggiore. Per un uomo, la cosa più difficile da affrontare è non potere, non essere capace di salvare il proprio figlio, essere incapace di impedire che soffra.

Devo ammettere di non aver risolto nessuno di questi problemi. Mi sento terribilmente impotente. Ho continuato a lavorare, preparando il futuro come meglio ho potuto.

L’unica cosa che conta è che io lo ami.

Una notte ho deciso che Gaspard mi avrebbe mostrato quello che si aspettava da me. Ho deciso di chiederglielo. Mi sono messo accanto a lui, seduto nella sua stanza, e gli ho chiesto: “Gaspard, cosa ti aspetti da me?”

Non si è mosso, non ha emesso alcun suono, non ha nemmeno sbattuto gli occhi. È rimasto impassibile. Io ho aspettato. Ho aspettato quasi due ore. Sentivo il suo respiro, lo guardavo, l’ho pulito, l’ho baciato, ho pregato per lui, ho sonnecchiato un po’… E la risposta, all’improvviso, mi è sembrata ovvia. Lui vuole solo quello. Vuole solo che lo ami. Non vuole che smetta di lavorare, non vuole che lo curi, non vuole che faccia progetti nebulosi per il futuro. Vuole solo che lo ami oggi. Solo questo. Ed è molto.


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Questa notte voglio togliermi il cappello davanti a tutti i genitori di bambini straordinari, tutti i genitori che portano questo peso così difficile. Sono certo che i nostri figli sono orgogliosi di noi. Molto orgogliosi. Sono certo che un giorno giocheremo tutti a calcio in cielo. E Gaspard sarà centravanti. E io vedrò la sua felicità, pieno di orgoglio!

[Traduzione dal portoghese a cura di Roberta Sciamplicotti]

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