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Quei minori che fuggono dall’Africa sognando il calcio

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Vatican Insider - pubblicato il 25/01/17
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I flussi migratori hanno fatto registrare, nel 2016, 181mila arrivi via mare in Italia, di questi il 14,2% (25.846) erano minori non accompagnati, l’anno precedente raggiungevano solo l’8%, l’aumento quindi è stato considerevole. Fra i paesi da cui arriva il maggior numero di minorenni, ci sono l’Eritrea, il Gambia, la Nigeria, la Guinea, la Costa d’Avorio, la Somalia e il Mali; quest’ultimo, mercoledì scorso, fra l’altro, è stato colpito da un gravissimo attentato terroristico compiuto da al Qaeda, che ha causato oltre 40 vittime e più di 100 feriti in un campo militare a Gao, nel nord del Paese. Il quadro insomma, in molti di questi Paesi, rimane teso e le violenze diffuse. Sul tema specifico dei minori che arrivano in Italia, il Papa è intervenuto nel corso dell’Angelus del 15 gennaio. «Questi nostri piccoli fratelli, specialmente se non accompagnati – ha detto Francesco – sono esposti a tanti pericoli. E vi dico che ce ne sono tanti. È necessario adottare ogni possibile misura per garantire ai minori migranti la protezione e la difesa, come anche la loro integrazione». 

A Oliviero Forti, responsabile immigrazione della Caritas italiana, abbiamo chiesto quali sono le ragioni nella crescita degli arrivi di minori. 

«Diciamo che non è chiaro – precisa Forti – se non per alcuni contesti, quello che sta avvenendo, c’è comunque una strategia migratoria in atto: chi manda dei minori non accompagnati conosce bene le normative del nostro Paese e sa che questi non possono essere espulsi; non solo però: molti di questi ragazzi entrano in circuiti lavorativi e riescono a mandare soldi a casa. Certo, resta il fatto che in tal modo si mettono a rischio le vite di ragazzi i quali, per fortuna, nella maggioranza dei casi sono dei 16-17enni, prossimi alla maggiore età. Però vediamo anche nei nostri centri, che si sta abbassando l’età media, sono in aumento i minori anche molto piccoli, in particolare dall’Asia arrivano anche bambini di 10-11 anni; e in questo senso il ragionamento cambia». 

In che modo?  

«Nel senso che se si può avere una certa tolleranza da un punto di vista culturale, immaginando che un 17enne tutto sommato se la caverà, ora siamo di fronte a dei bambini; peraltro bisogna tenere conto che il sistema di accoglienza non è pronto, perché non si tratta più di seguire una persona per uno o due anni, bambini così piccoli vanno accompagnati per lungo un periodo». 

Che significa che alcuni entrano in circuiti lavorativi?  

«In questo caso ci riferiamo ai ragazzini egiziani che per altro provengono tutti da una stessa aerea; sono ragazzini che hanno una rete qui in Italia, il lavoro è legato ai mercati generali di Roma e Milano, sono ragazzi che arrivano sapendo che comunque qualcuno li farà lavorare. Poi, certo, possiamo immaginare che siano sottopagati e in condizioni non facili. Ma per loro si tratta comunque di un’occasione, guadagnano dei soldi che riescono a mandare a casa. Anche quando si parlava nel passato di bambini che spariscono, erano pure questi minori che entravano nei centri di accoglienza dove però volevano rimanere il tempo necessario per rifocillarsi per poi andare a Roma o Milano. Fare dei progetti per loro è complicato, perché noi li consideriamo dei minori, ma dal loro punto di vista sono quasi dei capifamiglia che mantengono le loro famiglie nei paesi d’origine». 

Perché arrivano bambini di 10 anni?  

«Per quanto riguarda i bambini asiatici non è una vicenda nuova, ci sono bambini che hanno fatto viaggi incredibili, spesso a piedi, manovrati dai trafficanti, lavorando ne paesi di transito per pagarsi il viaggio. Continuano ad arrivare da Pakistan, Afghanistan, Iraq. È una dinamica diversa, anche dal punto di vista familiare, partono da paesi dove non c’è alcuna possibilità, è come se gli dicessero: “prova almeno tu a trovare una prospettiva diversa”». 

Da quali altri paesi arrivano i giovanissimi?  

«Abbiamo tanti bambini e sempre più numerosi dell’Africa sub-sahariana, e anche in questo caso si tratta di giovani e giovanissimi che non hanno un chiaro progetto migratorio. Spesso arrivano in Italia con le magliette delle squadre di calcio addosso, c’è questo sogno, e tutti chiedono sempre un campo di calcio dove giocare; in tal senso abbiamo esperienze anche belle come quella che è stata messa su nel salernitano dove c’è una squadra composta da ragazzi richiedenti asilo, e a volte giocando in campionati minori riescono a fare la differenza perché alcuni di loro sono molto bravi. È chiaro che quando partono dai loro Paesi, non sanno bene cosa troveranno in Europa. Tentano col calcio, poi li ritroviamo più grandi a raccogliere pomodori nei campi, qualcuno si inserisce in circuiti lavorativi migliori». 

C’è anche il dramma delle ragazze nigeriane…  

«La storia delle ragazze nigeriane è invece un disastro. Anche perché si sta abbassando l’età di queste giovani che sono vittime della tratta e poi costrette alla prostituzione, e anche per questo stiamo puntando sempre di più, pure come Caritas, sulla formazione degli operatori, perché possano essere in grado di identificare, nei circuiti dell’accoglienza, le reti della tratta». 

Per i minori che invece vivono in Italia con le loro famiglie e sono inseriti nella scuola, da molti anni si parla di una legge di cittadinanza, ma senza esito. È ancora così?  

«Sì, proprio di recente con altre organizzazioni e la campagna “l’Italia sono anch’io”, abbiamo preso atto tristemente che non ci sono passi in avanti, che non c’è una reale volontà politica per riconoscere almeno la cittadinanza del minore. Ormai sono diversi anni, abbiamo raccolto le firme, c’è una proposta di legge, e però non si vedono segnali». 

Ma appunto, il riconoscimento della cittadinanza dei minori, non è uno dei modi più efficaci per affrontare il tema della sicurezza, della legalità?  

«Rispetto a questo tema, se veramente vogliano occuparci di sicurezza in Italia, piuttosto che intervenire attraverso i Cie (Centri di Identificazione ed Espulsione), dobbiamo agire con questi strumenti, che danno a tutti sicurezza, stabilità, tranquillità; altrimenti tutto resta in un limbo». 

Si parla spesso di espulsioni, un tema che piace all’opinione pubblica, ma c’è poca consapevolezza di quanto siano difficili da realizzare…  

«Sì questo è il punto. C’è il caso emblematico del Mali, che è uno dei principali paesi di provenienza degli immigrati. Il Mali ha un accordo con l’Italia ma la situazione politica nel paese è tale per cui una parte del Parlamento sta protestando rispetto ai rimpatri dicendo che non bisogna accettare queste persone “indietro” e che l’Europa ha il dovere di accoglierle. Addirittura c’è stato il caso del documento di due cittadini maliani che sono stati rispediti indietro dalla Francia, ma poi gli è stato impedito di rientrare nel loro paese dalle autorità del Mali, e sono dovuti tornare di nuovo in Francia. Certo, il tema degli accordi con altri paesi c’è, ma non è così facile realizzarli, non basta una firma, se non c’è una volontà reale di riprendersi queste persone. È impensabile gestire l’immigrazione solo col tema dei rimpatri forzati o degli accordi bilaterali. È un aspetto che conta, ma le norme sull’integrazione sono più urgenti». 

Resta, in positivo, l’esperimento dei corridoi umanitari, contro i trafficanti e per aiutare le persone più bisognose…  

«Nei giorni scorsi abbiamo firmato un altro accordo in tal senso col ministero degli Interni e degli Esteri, per far arrivare 500 persone in Italia (dai campi profughi dell’Etiopia, in particolare eritrei e somali, accordo firmato con Caritas, Comunità Sant’Egidio, Cei; ndr) questo a dimostrazione della sensibilità del governo italiano, bisogna dargliene atto, rispetto al contesto europeo che è ben più disastrato. Tutti, dalle istituzioni al terzo settore, siamo convinti di questo: che canali sicuri e regolari d’ingresso potranno dare risposte positive nel medio e lungo periodo anche rispetto al caos dell’immigrazione irregolare e ai trafficanti di uomini e anche all’inserimento. Siamo solo all’inizio ma è un segnale importante che si sta dando e oltretutto si risparmiano moltissime risorse. Si sta lavorando, infine, e siamo già in una fase avanzata, per estendere i corridoi umanitari ad altri paesi europei a cominciare dalla Francia, lo stesso si sta provando a fare in Belgio. È un bel processo di contaminazione che può indicare pure all’opinione pubblica che un’altra strada esiste». 

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