La psicologa Treglia: valutare caso per caso, dinamiche molto differenti nell’agireNel biberon che le ha dato a dicembre non c’era solo il latte, ma anche una dose talmente alta di calmanti che avrebbe potuto ucciderla. Ma lei, a soli tre anni, non lo sapeva e non avrebbe nemmeno capito. Si è fidata, come tutti i bimbi, della sua mamma che le ha fatto bere tutto quel veleno guardandola negli occhi. Ed è stata male, tanto male che il suo piccolo cuore si è fermato.
I fatti si sono verificati all’ospedale Bambino Gesù dove la piccola si trovava ricoverata. Stando a quanto ricostruito dagli inquirenti, la donna, M.A., di 29 anni, avrebbe agito con lo scopo di attirare l’attenzione del marito, spaventata dalla crisi della loro relazione. Si sospetta che la donna avesse già provato a fare del male anche a una seconda figlia di un anno (Il Messaggero, 12 gennaio).
PATOLOGIA E VIOLENZA
Cosa spinge una donna alla “sindrome da madri assassine”? Spiega ad Aleteia la dottoressa Mariangela Treglia, psicologa Clinica e psicoterapeuta: «È molto difficile riuscire a capire fino in fondo cosa possa spingere una madre ad uccidere il proprio figlio. Io invece, purtroppo, mi rendo sempre più conto dell’esistenza di un binomio forzato patologia-violenza. Questo binomio, reso sempre più evidente dai media e dall’“orrificio mediatico” che ne deriva, sembra assolverci tutti con la formula di una presunta normalità e di una patologia che riguarda solo i “cattivi”: quelli che ammazzano».
TENTATIVO ALTRUISTICO
Ogni caso, prosegue la psicologa, «va valutato nella sua drammatica individualità e va inserito nella cornice all’interno della quale prende forma il figlicidio. Può sembrare assurdo e paradossale ma una mamma che uccide, soprattutto nel caso di una grave depressione, è una mamma che vede nell’uccisione un tentativo altruistico, una dimensione salvifica. Rispetto a una vita ingiusta e piena di dolore la morte rappresenta il male minore».
PUNIRE CHI LI HA GENERATI
In altri casi, «non meno drammatici», il gesto dell’uccisione, sottolinea Treglia, «diventa una vendetta spietata nei confronti di un’altra persona, di solito il proprio uomo e padre dei figli: l’uccisione di questi rappresenta il tentativo estremo di punire colui che li ha generati: Il dramma nel dramma. In fondo la storia ci narra di una Medea che passa attraverso le ere con caratteristiche immutate di odio, invidia, vendetta, orgoglio ferito, rabbia».
In questi casi «non c’è solo una fragilità genitoriale che vede protagonisti entrambi i genitori, ma dinamiche patologiche della coppia che spesso sfuggono anche ai familiari che la circonda».
NON C’E’ PREVENZIONE
Questa malattia non ammette prevenzione. «Purtroppo non ci sono dei comportamenti evidenti – prosegue Treglia – che possono far prevedere un atto estremo come questo, ci sono però dei segnali che potrebbero e dovrebbero essere intercettati in queste famiglie».
UN INSIEME DI DISAGI
Dietro questi drammi, spesso, «ci sono veri e propri disagi economici, familiari, di coppia, relazionali. Come evento multifattoriale, nel figlicidio materno, non si può trovare una singola causa ma concause. Ciò che invece può essere utile osservare sono i vari fattori di rischio: un singolo fattore di rischio (come ad esempio un profilo intellettivo basso) non può essere sufficiente per determinare un atto così estremo».
DAL SUICIDIO ALLA RIMOZIONE
Una “mamma assassina”, una volta consumato l’atto, che tipo di comportamenti adotta? Ha consapevolezza del gesto compiuto? La psicologa evidenzia che «nel caso ad esempio di una grave depressione, le madri in seguito al gesto estremo si tolgono a loro volta la vita (suicidio allargato). Ci sono altri casi nei quali le madri vanno incontro a dei meccanismi massicci di rimozione o negazione cioè non riconoscono il gesto o non riescono a rendersi conto della scomparsa definitiva del figlio».
INFORMAZIONE FEROCE
Un fenomeno, quello delle “madri assassine”, condizionato anche dal tritacarne dei media. «Sta aumentando il tipo di informazione su questi ed altri drammi. Un’informazione mediatica spesso feroce e spietata che non lascia scampo, sempre più veloce e reperibile in ogni momento. Veniamo bombardati continuamente da informazioni e più queste sono drammatiche e ricche di sofferenza più sembrano alimentare quella morbosa curiosità dell’uomo del terzo millennio».
SOLITUDINE E SOFFERENZA
«Diversi anni fa l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) – conclude Treglia – ha riferito un dato allarmante: nel 2020 la patologia più frequente sarà la depressione. Forse questo dato dovrebbe costituire una domanda nelle coscienze umane: siamo sempre più connessi nel mondo virtuale, sempre in compagnia di amici virtuali, tanti amici su Facebook, ma forse ciò che è in reale aumento è la solitudine e la sofferenza dell’uomo del terzo millennio».