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Un silenzio molto eloquente

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L'Osservatore Romano - pubblicato il 12/01/17
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Nel libro di Endō e nel film di Scorsese le persecuzioni anticristiane nel Giappone del Seicentodi Juan Manuel de Prada

Nel 1988 Martin Scorsese aveva letto con ammirazione e stupore Silenzio, un romanzo dello scrittore cattolico giapponese Shūsaku Endō (1923-1996). Aveva capito subito che un giorno avrebbe dovuto farne un adattamento cinematografico, ma, per motivi economici e artistici, sarebbero passati tre decenni prima di realizzarlo. Nella sua apparente semplicità ed essenzialità, Silenzio è un’opera incredibilmente complessa, non esente da similitudini con Il potere e la gloria di Graham Greene. Pubblicata nel 1966, sarebbe presto diventata l’epicentro di un’accesa polemica, affrontando la spinosa questione della persecuzione subita dai cristiani nipponici dalla fine del Cinquecento alla metà del Seicento, con picchi drammatici come l’espulsione di tutti i missionari nel 1614 o la cosiddetta ribellione di Shimabara (1637-1638) che, dopo essere stata brutalmente soffocata, avrebbe dato luogo al periodo Sakoku quando il culto cristiano fu definitivamente proibito.

Liam Neeson nel ruolo di padre Cristóvão Ferreira

In questo straziante scenario Endō colloca la vicenda di Silenzio, che ricrea liberamente la storia del gesuita portoghese Cristóvão Ferreira (1580-1650), che divenne provinciale del Giappone e subì terribili torture durante l’epoca più cruenta della persecuzione, prima di apostatare e adottare il nome di Sawano Chūan. La figura di Ferreira diviene — a imitazione del Kurtz di Joseph Conrad — il cuore di tenebra del romanzo di Endō, dove si racconta l’odissea di due giovani gesuiti, i padri Sebastião Rodrigues e Francisco Garupe, che da Macao vanno in Giappone per conoscere la verità sul loro superiore.

Alcuni detrattori di Endō hanno giudicato Silenzio un romanzo “ambiguo” in termini religiosi, perché postula un vissuto privato della fede e indica l’inutilità del martirio. Ma si tratta di una lettura semplicistica che la complessità morale e teologica del romanzo smentisce. L’opera dello scrittore giapponese ci mostra la lotta della fede in situazioni di sofferenza estrema, là dove la capacità di resistenza umana si scontra con il silenzio di Dio.

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Ovviamente non vi troviamo quell’atteggiamento moralistico edulcorato che tanto piace a un certo cattolicesimo emotivista, così propenso a offrire soluzioni nette e troppo facili (anche irreali) alle questioni più delicate e strazianti. Silenzio è un romanzo che — come chiedeva Flannery O’Connor all’artista cattolico — si addentra in «un territorio che è in larga parte proprietà del Nemico» e si confronta con il problema del Male e della sofferenza, mostrando senza mezzi termini le sofferenze della fede in mezzo a una persecuzione crudelissima.

Nel romanzo ci sono brani di una crudezza tale da farci gelare il sangue nelle vene, in cui Endō ci descrive i tormenti a cui furono sottoposti i martiri giapponesi. E ci sono brani di una potenza spirituale e di una densità teologica sublimi, in cui si esaltano l’eroicità e la grandezza del martirio. Ma nel romanzo c’è anche uno sforzo per comprendere le debolezze di quanti cedono per mancanza di coraggio, come il personaggio al tempo stesso grottesco e tragico di Kichijiro, un vigliacco che rinnega ripetutamente Cristo e denuncia altri cristiani, ma ripetutamente chiede e trova il perdono in padre Rodrigues, da cui torna come un cagnolino dal suo padrone. Perché Cristo, di fatto, volle salvare anche Giuda, sapendo che in ogni Giuda respira un potenziale Pietro.

Così lo spiega padre Rodrigues, in un brano particolarmente significativo del romanzo: «Cristo, nell’Ultima Cena ha detto a Giuda: “Quello che devi fare fallo al più presto”. Neanche ora che sono sacerdote ho potuto cogliere bene il senso di quelle parole. Che cosa avrà provato Cristo scagliando quelle parole in faccia all’uomo che lo avrebbe venduto per trenta denari d’argento? Le avrà dette con ira e con odio? O saranno piuttosto state parole nate dall’amore? Se erano parole di ira, Cristo in quel momento stava negando la salvezza a quell’unico uomo tra tutti gli uomini del mondo. Giuda avrebbe ricevuto in pieno la sferzata dell’ira di Cristo e non si sarebbe salvato; e il Signore avrebbe abbandonato al suo destino un uomo caduto per sempre nel peccato. Ma non poteva essere così. Cristo cercò di salvare persino Giuda. Se così non fosse, non avrebbe senso che abbia fatto di lui uno dei suoi discepoli».

Silenzio ci insegna che la misericordia di Dio condivide anche la sofferenza di quanti lo rinnegano; poiché, come leggiamo in un altro brano del romanzo, «chi può assicurare che i deboli abbiano sofferto meno dei forti?». Senza alcun dubbio, il punto più controverso del romanzo di Endō — e del film di Scorsese — è comunque la soluzione finale adottata dai padri Ferreira e Rodrigues, che apostatano pubblicamente e proseguono la loro opera evangelizzatrice nella clandestinità.

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Non si tratta, nemmeno alla lontana, di un’esperienza privata e accomodante della fede, bensì di una dolorosa rinuncia a predicare il vangelo sui tetti per evitare lo sterminio dei propri fratelli. Infine, il romanzo di Endō ci propone una riflessione sulla cosiddetta «disciplina dell’arcano», che ha un evidente fondamento evangelico: «Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi» (Matteo, 7, 6). Lo stesso sant’Agostino raccomandava ai suoi fedeli, per evitare la reazione furibonda dei pagani, di nascondere per prudenza il proprio credo.

Dio non vuole che rifuggiamo dal martirio; ma vuole ancor meno che ci buttiamo insensatamente nel martirio o che la nostra insensatezza getti nel martirio i nostri fratelli. Ovviamente, questa disciplina dell’arcano può essere l’alibi perfetto per i vigliacchi che tacciono e concedono, desiderosi di ottenere le ricompense che offre il mondo, mentre i coraggiosi vengono sacrificati. Ma non è questa la tesi che si difende in Silenzio, dove la finta apostasia dei protagonisti ci viene presentata sempre come un tragico atto di amore verso i loro fedeli.

Prima che Scorsese adattasse Silenzio al grande schermo, lo aveva fatto Masahiro Shinoda in Chinmoku (“Silenzio”, 1971), un’opera dalle grandi qualità cinematografiche che tuttavia snatura completamente il significato del romanzo, presentando un padre Rodrigues che, dopo aver apostatato, si lascia travolgere dalla disperazione (come si deduce da una sequenza finale particolarmente infelice). La versione di Scorsese è invece scrupolosamente fedele all’originale, sia nella forma sia nel contenuto.

Per tradurre in immagini l’essenzialità della prosa di Endō, Scorsese ha rinunciato quasi del tutto alla colonna sonora (il che può rendere il film un po’ arido per lo spettatore medio) e ha scelto un tempo pausato (addirittura molto pausato per i ritmi frenetici dello pseudo-cinema attuale), come pure un espediente discutibile, ma incredibilmente efficace, che consiste nel raccontare la storia rinunciando a immagini truculente e a effettismi, adottando addirittura uno sguardo che si finge neutrale e che, in alcuni momenti (per esempio nella sequenza della morte di padre Garupe) ci può apparire freddo o distante.

Ma noi non crediamo assolutamente che lo sia; e ancor meno che una simile apparente freddezza si possa interpretare come distacco rispetto alla sofferenza dei martiri: la bellissima e terribile sequenza in cui ci viene mostrata la lenta morte dei cristiani che sono stati crocifissi sulla riva del mare perché l’alta marea li affoghi lentamente, non lascia ombra di dubbio sull’atteggiamento rispettoso del regista.

Ma certamente ancora più ammirevole appare lo scrupoloso rispetto che Scorsese mostra per il tema e le intenzioni di Endō, senza fare alcuna concessione allo spirito incredulo della nostra epoca. Così, per esempio, padre Rodrigues (magnificamente interpretato da Andrew Garfield, che incarna alla perfezione la mescolanza di ardore religioso e fragilità del personaggio del libro) sente, in modo nitido e risonante, la voce di Cristo (non la voce della sua coscienza) quando alla fine decide di calpestare il fumi-e che gli viene presentato, per salvare la vita di altri cristiani: «Calpestami… Sono venuto al mondo affinché mi calpestiate, ho portato la croce per condividere il vostro dolore».

Infine Scorsese riflette fedelmente l’intenzione di Endō nella parte conclusiva del film, dove la voce narrante (che fino a quel momento è stata monopolio di padre Rodrigues), assume nel romanzo un tono notarile e un po’ criptico, per suggerirci che il protagonista ha continuato a evangelizzare in segreto le guardie incaricate di sorvegliarlo.

Scorsese dice esplicitamente quello che Endō suggerisce appena: ci permette di vedere senza mezzi termini come Ferreira chiude un occhio dinanzi all’introduzione in Giappone di oggetti il cui significato cattolico non viene colto dalle autorità; ci consente di vedere senza ambiguità come Rodrigues ascolta in confessione Kichijiro, il suo delatore, e perdona i suoi peccati; infine, ci offre una inquadratura finale totalizzante — che naturalmente non riveliamo — in cui, in modo molto eloquente, abbiamo la conferma che Cristo non ha mai abbandonato il protagonista e che il protagonista non ha mai smesso di predicare il vangelo tra le persone che lo hanno accompagnato.

Silenzio è l’eloquente film di un grandissimo artista e di un cattolico che, come Flannery O’Connor, non esita ad addentrarsi in territorio nemico per misurarsi con i demoni che attaccano a morsi la fede.

E, addentrandosi in quel territorio, riesce a scuotere la nostra fede flaccida e fievole e ci permette di ascoltare la voce amorevole di Cristo, che risuona come un osanna eterno dentro di noi, condividendo il nostro dolore e perdonando ogni volta i nostri cedimenti e le nostre debolezze.
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