Padre Camillo Ripamonti è presidente del Centro Astalli di Roma, sede italiana del Servizio Gesuiti per i rifugiati. A lui abbiamo chiesto come l’Europa, in questi giorni drammatici, si sta misurando con il problema immigrazioni e profughi.
Padre Ripamonti, col terrorismo puntuale torna la paura dello straniero in tutta Europa…
«Bisogna puntare sulla conoscenza dello straniero, perché per vincere qualsiasi tipo di paura in Europa dobbiamo ritornare sulla conoscenza dell’altro, all’incontro con le persone, questo è secondo me un dato imprescindibile se vogliamo uscire dalla logica della paura. E poi, comunque, abbiamo visto che sia la questione del terrorismo che quella dei migranti in generale, non ha un ritorno in termini politici se valutata in positivo, e quindi nessuno investe politicamente sul tema delle migrazioni ma questo ha delle conseguenze, sia a livello nazionale che europeo, perché nessuno farà mai delle dichiarazioni – in un contesto come quello attuale, pensiamo al recente attentato terroristico, ma anche in giorni meno intensi – nessuno, dicevo, prenderà mai posizione a favore dell’immigrazione perché questo non paga in termini elettorali».
Ma allora c’è una resistenza culturale da superare?
«Sì, e secondo me bisogna avere quella lungimiranza di saper investire sulle giovani generazioni, si tratta di un aspetto sul quale come Centro Astalli stiamo ragionando già da diversi anni. Bisogna cioè partire dall’educazione nelle scuole, questo ci porterà alla formazione di cittadini che da una parte sono comunque più disponibili a una mentalità europea perché vivono gli Erasmus e hanno, in un certo modo, l’Europa nel loro dna; dall’altra all’interno della scuola puoi trasmettere un progetto formativo che li porta già ad abituarsi al confronto con altre culture, religioni, popoli. È un lavoro non di corto respiro, più sul futuro, ma è una delle poche vie percorribili perché i cittadini del domani sono quelli che formiamo oggi».
Di recente avete denunciato i rischi degli accordi stretti dall’Ue sul modello di quello sottoscritto con la Turchia, cosa sta succedendo? Cosa temete?
«Sta succedendo che sul modello dell’accordo con la Turchia si stanno facendo accordi simili con altri paesi, per esempio la Libia. L’intento di queste politiche è quello di bloccare i flussi, contemporaneamente si dice però che occorre investire sul futuro di questi paesi per evitare che la gente sia costretta a fuggire. Quindi si sovrappongono i due piani: gli investimenti per lo sviluppo e l’investimento a breve termine che serve in realtà a bloccare i flussi verso l’Europa. Ciò che avviene, in sostanza, è che una parte degli investimenti destinati allo sviluppo viene invece utilizzata per fermare i profughi. È il caso della Turchia, che riceverà 6 miliardi dall’Ue in due tranche; ovviamente la Turchia non utilizzerà queste risorse per lo sviluppo; in altri Stati che hanno maggiore bisogno di un aiuto in tale direzione, c’è questa confusione per cui fondi destinati alla crescita economica, alle infrastrutture, finanziano invece le fortificazioni delle frontiere dell’Europa e le politiche di sicurezza per fermare la gente che scappa».
C’è un tema delicato che merita però attenzione: è possibile dire che da una crisi drammatica come quella siriana e dall’indifferenza della comunità internazionale, nascano pulsioni di rabbia e vendetta che poi confluiscono nel terrorismo?
«Io credo che sicuramente la nostra indifferenza ferisce queste perone perché in qualche modo noi gli stiamo dicendo che non ci interessa molto di loro. E questo a lungo andare produce delle ferite. E anche il fatto di bloccare le persone in Turchia, è una sorta di disinteresse verso il destino di questa gente. E di conseguenza chi nutre rancore, anche quando riesce a entrare in Europa, si integra con maggiore difficoltà».
Il proselitismo delle organizzazioni fondamentaliste non è più facile in questo contesto?
«Probabilmente sì, ma è difficile immaginare degli sviluppi. Possiamo però dire ciò che è successo negli ultimi anni, e cioè che le seconde generazioni che si sono integrate male in Europa, sono il vero bacino di riferimento per le organizzazioni terroristiche. Per cui questo ci dice che se noi non investiamo su queste situazioni di crisi e non ci mobilitiamo perché le persone possano arrivare in sicurezza, con rispetto per la loro dignità, aumenta il livello del rancore, poi è difficile prevedere come si esprimerà in futuro e non è escluso che possa anche incanalarsi nel terrorismo».
Ma qual è la capacità di accoglienza dell’Europa di fronte a questi flussi, l’alternativa alle frontiere chiuse è quella di spalancare le porte, come dice polemicamente chi critica le posizioni ispirate alla solidarietà?
«Teniamo conto di questo: i campi profughi allestiti nei paesi confinanti alle zone in cui si svolgono i conflitti, sono la risposta all’emergenza immediata che si viene a creare. Ma la storia ci insegna che questi campi diventano spesso della soluzioni stabili, pensiamo a quello che è accaduto con i palestinesi. Per tale ragione, spesso, i rifugiati non vogliono più neanche entrare nei campi profughi e preferiscono vivere in povertà nelle periferie urbane, magari come “invisibili”. Se poi l’accoglienza in Europa fosse regolamentata, se ognuno facesse la propria parte, all’interno dell’Ue, si potrebbero gestire anche dei flussi regolamentati e dei canali umanitari. Perché non dobbiamo dimenticare che in Europa vivono oltre 500 milioni di persone, nel 2016 le persone arrivate per mare sono circa 350mila. Quindi si tratta di una proporzione, rispetto alla popolazione totale, abbastanza gestibile se tutti gli Stati facessero la loro parte e se superassimo l’accordo di Dublino in base al quale il paese nel quale un profugo arriva deve essere per forza quello che se ne fa carico. Se insomma l’Europa andasse verso un sistema d’asilo più europeo, la situazione sarebbe certamente diversa perché ciò che sta emergendo è che tutte le modifiche o le proposte sull’asilo europeo sono fatte pensando a proteggersi da un’invasione dei rifugiati. Se proseguiamo a ragionare così non costruiamo un’accoglienza volta all’integrazione, si pensa a difendersi da un attacco esterno piuttosto che a gestire un fenomeno che è strutturale nel nostro mondo, un mondo segnato dalle ingiustizie, dai cambiamenti climatici e dalle guerre».