Marengo commenta il discorso del Papa dello scorso 22 dicembre, « tra gli interventi più significativi e articolati di Francesco»di Gilfredo Marengo*
In evidente continuità con gli accenti programmatici di Evangelii gaudium, il discorso alla Curia dello scorso 22 dicembre si colloca tra gli interventi più significativi e articolati di Francesco. Dopo avere ridimensionato l’esercizio del ministero petrino a proposito delle relazioni tra la Chiesa e il mondo («Non è compito del Papa offrire un’analisi dettagliata e completa sulla realtà contemporanea» [EG 51]), il Papa ha fatto il punto dei suoi tre anni di impegno riformatore della struttura centrale del governo della Chiesa con accenti altrettanto nuovi.
Non è certamente usuale che un Papa riconosca, senza infingimenti, che il suo intento riformatore trovi ostacoli e resistenze. Allo stesso tempo colpisce il riconoscimento che alcune decisioni non siano state le migliori e che si debba correggere, in corso d’opera, i modi con i quali si è proceduto. È uno stile di comunicazione che privilegia un realismo semplice e scevro da ogni clericale politically correct che procede nella direzione di superare ogni uso schematico e improprio del motto «Roma locuta, causa finita», come già aveva ricordato in Amoris laetitia: «desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero» (n° 3).
D’altra parte tutto questo non ha nulla a che fare con una messa tra parentesi dello specifico del primato petrino: colpisce che, per due volte, nella parole di Francesco riecheggi esplicitamente il richiamo al Vaticano I che nella Pastor aeternus sancì l’infallibilità del Papa e la sua singolare autorità nei confronti di tutto il corpo ecclesiale.
Banale, anzi dannoso, sarebbe inquadrare questi accenti nel logoro schema che oppone tradizionalismo e progressismo: non solo Francesco lo ha più volte criticato, ma il suo stesso modo di procedere ne mette radicalmente in questione le premesse e l’esercizio come chiave interpretativa del dibattito ecclesiale.
Forse è più interessante prendere in considerazione una classica polarità della vita cristiana: istituzione e carisma.
Di solito essa viene assunta secondo questo profilo: l’oggettività dei fattori istituzionali della Chiesa fissa e custodisce, senza incertezze, l’ambito entro il quale può fluire (come il corso di un fiume tra i suoi argini) tutta la ricchezza, vivacità e novità dell’esperienza cristiana e l’originale contributo che ogni fedele e comunità può produrre a partire dalla propria libera corrispondenza all’agire dello Spirito nella sua vita.
Secondo questo paradigma il momento oggettivo e istituzionale guadagna sempre un certo primato: la sua assenza impedirebbe un flusso ordinato e fecondo della vita cristiana: senza gli argini un fiume si perde in una palude.
Se, d’altra parte, si tiene bene in conto che tutto quanto appartiene alla dimensione istituzionale è ordinata alla missione della Chiesa, non è difficile comprendere che essa non può venire ridotta a un formale principio regolatore che possa prescindere dalle grandi parole che normano il maturare della vita cristiana: conversione, comunione, missione, cattolicità. Continuando con la metafora fluviale: la qualità degli argini, oltre che il loro esserci o meno, orienta nel bene e nel male il corso del fiume.
Alla luce di queste osservazione l’ultimo discorso alla Curia appare come uno degli interventi più densi dal punto di vista del metodo ecclesiale e dell’esercizio del governo della comunità cristiana.
Si coglie la volontà di riconciliare, senza eliminarla, la polarità istituzione-carisma, almeno in due direzioni: innanzitutto nessun nuovo accento carismatico permane in maniera feconda nel corpo ecclesiale se non giunge fino a ri-formare i suoi profili istituzionali, riconducendoli alla loro unica ragion d’essere: sostenere e custodire la testimonianza e la missione della comunità cristiana.
In secondo luogo mirare a questa finalità richiede non solo un generico appello a una maggiore «spiritualità», ma la presa in carico di istanze e metodi propri di ogni soggetto istituzionale: illuminante è l’insistenza del Papa su categorie come razionalità, funzionalità, sussidiarietà, professionalità. Un’istituzione chiamata a servire la missione del popolo cristiano ha quasi l’obbligo di «funzionare» bene: è in gioco molto di più del buon andamento di un macchina amministrativa.
La puntuale rivendicazione dei passi nuovi già compiuti, presente nella parte finale del discorso, mostra come l’ampio orizzonte nel quale si sta procedendo è tracciato da queste due prospettive.
Colpisce quanto Francesco, che non perde occasione per prendere le distanze da ogni retaggio della figura del «Sovrano Pontefice», stia investendo grandi energie per dotare la Chiesa di una struttura di governo adeguata, in tutte le sue complesse articolazioni, ai compiti formidabili che il mandato apostolico le assegna, manifestando la pertinenza e fecondità della scommessa sull’appello alla «conversione pastorale».
*Professore ordinario di Antropologia teologica presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia a Roma. Membro del comitato scientifico del centro studi e ricerche Concilio Vaticano II della Pontificia Università Lateranense