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Meglio il re o Cristo? Il dubbio della Thailandia

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Vatican Insider - pubblicato il 27/12/16
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All’ingresso della chiesa del Redentore, uno dei templi cattolici più grandi di Bangkok, campeggia il ritratto del nuovo sovrano Maha Vajiralongkorn accompagnato dalla scritta «Lunga vita a sua maestà il re Rama X». Non è una novità, nè un’eccezione: omaggi, figure, fotografie e ritratti del nuovo re si trovano a ogni angolo di strada, tanto su negozi e aziende private, quanto naturalmente in ogni ufficio, luogo o istituzione pubblica.  

Nonostante il passato non proprio «regale», segnato da abitudini stravaganti e condotta di vita quanto meno inappropriata, Maha Vajiralongkorn ha accettato ufficialmente l’invito dell’Assemblea nazionale ed è stato proclamato nuovo monarca della Thailandia. Il figlio del sovrano Bhumibol, morto lo scorso 13 ottobre, regnerà con il nome di Rama X. L’incoronazione del nuovo sovrano è prevista alla fine 2017, dopo la cremazione di suo padre e la fine del lungo periodo di lutto nazionale che tuttora attraversa la nazione. 

«Dappertutto si vedono gigantografie del re o della famiglia reale. In questo periodo di lutto le immagini si sono moltiplicate. Persino i tatuaggi, i dolci e i vestiti mostrano l’immagine di Rama IX. Anche nelle chiese cattoliche le foto sono a fianco dell’altare e all’entrata. È una massiccia, unanime e inconfutabile identificazione con una persona o con il simbolo che la rappresenta. Questo fa pensare alla forza dell’immagine, di un segno che veicola un messaggio», racconta don Attilio de Battisti, missionario fidei donum della diocesi di Padova che, insieme con alte diocesi del Triveneto, da oltre dieci anni ha in Thailandia una comunità che attualmente conta sei missionari. 

«Il bisogno di segni fa parte della religiosità popolare. Attraverso segni esterni la gente semplice avvicina il mistero. Non stupisce che il buddismo, a dispetto delle sobrie indicazioni dello stesso Buddha, sia pieno di simboli, riti, oggetti, immagini, significati, colori», spiega il Sacerdote. Per questo i missionari italiani in Thailandia auspicano che «il Natale sia visibile anche con gli occhi», perchè «in fin dei conti l’incarnazione ha anche questo significato». 

In Thailandia, nazione dove i cristiani costituiscono meno dell’1% della popolazione, Natale non è un giorno festivo. I cittadini cristiani vanno al lavoro, ma questo non significa che non celebrano la festività che, in un paese a larga maggioranza buddista, ha assorbito a livello popolare gli aspetti prettamente commerciali della ricorrenza. I bambini tailandesi hanno familiarità con Babbo Natale e soprattutto nei centri urbani o nelle zone turistiche non mancano gli alberi di Natale.  

Ma oggi per i battezzati thailandesi vivere il mistero dell’incarnazione significa tenere ben presente la situazione di estrema povertà e disagio che vivono i confratelli pakistani che da alcuni anni giungono a frotte in cerca di asilo politico. Bangkok viene scelta dai fedeli che fuggono dal Pakistan a causa di discriminazione o persecuzione religiosa in quanto a Islamabad si ottiene facilmente un visto turistico per raggiungere il paese e il viaggio ha un costo accessibile.  

Secondo l’Alto Commissario Onu per i Rifugiati (Acnur) i profughi pakistani, per larga maggioranza cristiani, sono oltre 12mila. Ma la Thailandia è uno dei paesi che non ha firmato la Convenzione Onu sui rifugiati del 1951, nè il successivo protocollo del 1967. E se la nazione non riconosce lo «status» di richiedente asilo, scaduto il visto turistico, il destino è la clandestinità o il carcere. 

I rifugiati hanno l’unica possibilità di rivolgersi agli uffici locali dell’Acnur ma, nel tempo necessario per sbrigare un intricato percorso burocratico che può durare fino a cinque anni, i pakistani vengono rinchiusi in strutture simili a lager, in situazioni di degrado umano e sociale.  

Organizzazioni umanitarie, chiese, associazioni della società civile, come anche leader cristiani pakistani, denunciano l’abbandono di questi profughi, lasciati in condizioni disumane. Bonnie Mendes, sacerdote pakistano che ha vissuto 11 anni in Thailandia da responsabile di Caritas Asia, spiega a Vatican Insider: «Le condizioni di vita di questi profughi reclusi sono al di sotto dello standard della dignità umana. L’Europa attraversa una fase storica in cui affronta una crisi umanitaria legata al massiccio afflusso di rifugiati. Può dunque comprendere il fenomeno che nel sud-est asiatico riguarda i pakistani cristiani in Thailandia come i musulmani rohingya in Birmania. Occorre un intervento urgente».  

Questi profughi, fuggiti da un contesto di violenza, discriminazione e sofferenza, si ritrovano in un nuovo inferno e vivono il Natale dietro le sbarre di un centro di detenzione, da cui non possono uscire. 

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