Il calore, alle 10 del mattino ha già raggiunto i 30 gradi. Natale a 40° non è una rarità a queste latitudini dove gli alberi natalizi non conoscono i fiocchi di neve. Non lo è per Gaspar Romero, che si difende dal calore sulla soglia di un salotto che dà sul cortile disseminato di piante di un verde vigoroso. É il più piccolo dei sette figli nati dal matrimonio tra Santos Romero e Guadalupe Galdámez, distanziato di dodici anni dal più celebre Oscar Arnulfo il secondogenito. È gioviale e lucido dall’alto dei suoi 87 anni. Lo informo dell’incontro che ho appena avuto con il sacerdote Rafael Urrutia che si è occupato della causa di beatificazione di suo fratello Oscar Arnulfo e della notizia che la documentazione di un quarto miracolo, forse quello buono per farlo santo, è partita per Roma e verrà presto esaminata dagli officiali dell’apposita Congregazione vaticana. E che altri due casi di presunte guarigioni inspiegabili, quello di un ecuadoriano e di un messicano, sono sotto screening, ma ancora in Salvador.
Gaspar Romero ascolta tutto attentamente, visibilmente interessato. Dopo aver assimilato le notizie che gli porto mi chiede se sono stato nella cripta di monsignor Romero nel sottosuolo della cattedrale metropolitana. Mi raccomanda di andarci e di fare attenzione a un dipinto «muy bonito» di un dottore di Usulutan che ringrazia il beato Romero per un miracolo ricevuto. «Mi hanno raccontato personalmente di molte guarigioni e grazie ricevute da tanti fedeli che però non hanno base scientifica, e di molte persone che per l’intercessione di Monsignore hanno ottenuto salute e trovato lavoro…».
Gli mostro una fotografia tratta dal sito salvadoregno Supermartyrio. Nello scatto slavato dal tempo sono ritratte la madre Guadalupe Galdámez de Romero, dai lunghi capelli corvini, con i suoi figli, Oscar Arnulfo appollaiato sul bordo della sedia, con a fianco Zaida, Romolo nelle braccia della madre e il maggiore, Gustavo, in piedi al suo fianco. La fotografia – spiega il sito che l’ha pubblicata in anteprima – è stata scattata il 21 novembre 1922, quando Oscar Arnulfo aveva 5 anni ed è a tutti gli effetti l’immagine più antica di Romero bambino che si conosca.
Lei però nella foto non c’è.
Gaspar Romero la prende con le dita come un’ostia.
«Vengo dopo» sorride. «Questi della foto sono tutti morti».
In vita sono rimasti lui e Tiberio Arnoldo Romero, che vive a San Miguel, il paese di cui Oscar Arnulfo è stato prima seminarista poi vescovo. «Io vengo subito dopo di lui. Mia sorella è morta».
Come ci si sente, o come si vive, con un fratello quasi santo?
Gaspar Romero ammette di non avere mai pensato che quel fratello con cui è cresciuto potesse diventarlo. «Vivevamo assieme e vedevo il suo carattere…». Si vede che cerca la parola per definirlo. «Differente» dice poi con molto ritegno. «Ma ricordo un pronostico di mia madre», rivela. Era l’anno 1942, Romero si trovava ancora a Roma per completare la sua formazione accademica nella Pontificia Università Gregoriana. «Parlando con lei del compleanno di Oscar Arnulfo il 15 agosto giorno della Madonna dell’Assunzione ricordo perfettamente che mi disse che sarebbe arrivato in alto». Non dice se pensasse al cielo dei beati e dei santi e con pudore svia il discorso sul Papa regnante, che non conosce personalmente, «solo per corrispondenza» precisa. Ma gli è molto grato. «È la persona che ha spinto il processo di beatificazione fuori dalla palude in cui era sprofondato. So che non andava avanti per le opposizioni che c’erano qui da noi», in El Salvador. Fa dei nomi, alcuni noti, altri meno. Gli ricordo quando il Papa, dopo la beatificazione, usò una espressione molto forte, di martirio patito anche dopo l’assassinio, un martirio «che continuò anche per mano dei suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato».
«Si, è proprio così, lo sentivo dire anche da lui gli ultimi giorni» scatta Gaspar. «Il suo peccato è stato quello di difendere i poveri, di chiedere giustizia perché non si commettessero prepotenze contro la povera gente. Per questo l’oligarchia l’ha fatto uccidere. I giornali l’oltraggiavano, quelli di questo Paese, che sono giornali dei ricchi, e dicono quello che i ricchi pensano. Dicevano che era comunista, che era guerrigliero, e l’oligarchia salvadoregna mandò a Roma tre vescovi, quello di San Miguel, di San Vicente, di Sant’Ana a denunciarlo, a chiedere che lo trasferissero. Monseñor lo seppe e gli dispiacque molto che tre fratelli nell’episcopato lo fossero andati a denunciare. Gli produceva dolore perché erano di quelli che più aveva aiutato». Aggiunge «che ce ne sono anche adesso» di diffamatori nella Chiesa di El Salvador.
E di persone che hanno cambiato opinione su monseñor Romero ne conosce, che erano critiche e ostili e non lo sono più?
«Si, e sono venuti da me. Mi hanno detto di essere dispiaciuti e pentiti perché di monseñor Romero avevano ripetuto cose non vere. Chiedono perdono a Dio e a lui per le offese che gli hanno arrecato».
Come Rutilio Grande prima di lui.
«Quando nominarono Romero arcivescovo padre Rutilio era direttore del Seminario San José de la Montaña. Rutilio gli chiese di essere trasferito a El Paisnal dov’era nato. Lì addottrinava la gente, insegnava a non lasciarsi oltraggiare dai padroni, che chiedessero un trattamento giusto e salari decenti. E questo provocò anche la sua morte: l’estrema destra lo mandò ad assassinare».
Cosa significò per suo fratello?
«Quando monseñor Romero seppe che avevano ucciso Rutilio andò lì. Arrivò sul posto che stavano vegliando il suo corpo nel parco. Chiese perché non lo vegliassero nella chiesa e lo fece portare dentro. Rimase tutta la notte di fianco alla salma di Rutilio. Lì è anche iniziata la sua amicizia con i Gesuiti (Rutilio Grande era gesuita, nda), che si erano distanziati da lui e lo criticavano».
È vero che in quel momento, davanti al cadavere di Rutilio Grande inizia – come scrivono i suoi biografi – anche il cambiamento di Romero?
«Sì, lì comincia una trasformazione in lui. Chiese al presidente della Repubblica Carlos Humberto Romero che si investigasse l’assassinio di padre Rutilio sino a identificare i colpevoli. Il Presidente disse di non sapere chi fossero i responsabili ma che avrebbe fatto svolgere indagini a fondo e in un mese avrebbe fornito risposte. Ma non fu così. Trascorso il mese e non avendo responsabili certi monseñor Romero ruppe con il governo».
Con ricadute anche sul fratello minore. Gaspar Romero ne ha parlato in una intervista al quotidiano on line El Faro dell’agosto 2011: «Io avevo una posizione molto buona in Antel (società di telecomunicazioni nazionale, nda), da dirigente. E d’un tratto arrivò l’ordine, ricordo che accadde un venerdì: mi trasferirono in portineria, a lavorare dalle 7 della sera alle 7 del mattino. Volevo sapere quale fosse il motivo, che cosa avessi fatto, chiesi persino udienza, ma non me la concessero mai. Così, ho obbedito e sono finito in portineria. Quando poi riuscii a parlare con il mio capo, lui mi confermò: “È a causa di suo fratello”».
Nella stessa intervista Gaspar Romero parla dei giorni che hanno preceduto l’assassinio di suo fratello e delle ritorsioni su di lui. «Anche io ricevevo molte minacce anonime a casa, da insulti a volgarità ad altre molto fini, nelle quali mi dicevano che volevano molto bene a mio fratello e che io intercedessi. Il venerdì prima che lo uccidessero (monsignor Romero fu ucciso un lunedì) mi arrivò un testo anonimo che diceva qualcosa del tipo che se mio fratello non avesse desistito dalle sue omelie, avrebbe avuto le ore contate, che lo avrebbero sequestrato e che io glielo avrei dovuto dire. Era chiaro, inequivocabile. Allora andai da lui e lui mi disse: “Non farci caso, buttalo via”».
Fu l’ultimo dialogo con il fratello.
«Mi ha detto: “Non ti preoccupare, se mi succede qualcosa, tu sarai il primo della famiglia a saperlo”. E sono state parole profetiche, perché il 24 marzo ero al lavoro quando, alle 6 della sera, venne il mio capo e mi disse di correre al Policlinico, che avevano ferito mio fratello. Io lo sapevo già, davvero, e sono uscito di corsa. Arrivato, non mi volevano lasciar entrare, però mi sono identificato. Alle 10 giunsero tutti i parenti, e rimasi lì tutta la notte».
Le parole più roventi arrivano prima del congedo. Anche la temperatura è salita e sfiora i 35 gradi. Gli riferisco un dialogo con il cancelliere dell’arcidiocesi di San Salvador Rafael Urrutia, che ha accompagnato Romero agli altari e che adesso sta facendo lo stesso con Rutilio Grande.
Mi ha detto che se oggi Romero fosse vivo direbbe le stesse cose che diceva negli anni ’80…
«Io le dico di più: se lui fosse qui oggi lo avrebbero ucciso di nuovo. Perché lui avrebbe continuato a difendere i poveri da tanta ingiustizia, tanta miseria, tanta corruzione».