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Quando Chesterton difese i regali materiali, simbolo del cristianesimo

2) MEGLIO DEI REGALI SONO I... PRESENTI Ieri ho letto la rubrica "Letti da rifare" di Alessandro D'Avenia sul Corriere della Sera. Ha scritto un pezzo bello ed utile per riscoprire il senso dello scambio dei regali senza farci assalire dall'ansia dell'acquisto ossessivo-compulsivo. Vi riporto un passaggio del suo scritto: "A Natale celebriamo che l’uomo è fatto per nascere, non certo per morire. Ci scambiamo i regali per rinnovare le relazioni e ribadire reciprocamente: è bello che tu sia nato. Così anche noi ci riceviamo in dono gli uni gli altri: la relazione stessa diventa visibile. Il compleanno di Dio permette a tutti di festeggiare il proprio: nascere è il dono più grande che un uomo e una donna possano fare alla Terra. Il Natale è in questo senso il «Compleanno di tutti», per questo ci scambiamo i regali: per ringraziare il nostro e altrui «venire alla luce» al fine di amare ed essere amati per come siamo. Possiamo celebrare il Natale, solo se è Natale per noi: chi è felice e grato di essere nato, può essere felice e grato della nascita degli altri. Lo scambio dei doni è così il modo tutto umano per rendere visibile, in tutta la sua verità, lo stato delle nostre relazioni: stiamo veramente rinnovando i nostri affetti più cari e affermando la bellezza della nascita nostra e altrui? (...) Il letto da rifare oggi è allora quello ispirato dal modo in cui nella nostra lingua si indicavano un tempo i doni: «presenti». «Fare un presente» diventa quindi regalare una presenza nuova, che a volte è semplicemente il farsi vivi con qualcuno che trascuriamo o ignoriamo da tempo o riannodare una relazione rovinata. Il dono è una presenza che ribadisce: «è bello che tu ci sia, comunque sia andata, eccomi qui a dirtelo». Donare non è acquistare la propria pace, ma rinnovare, per quanto possiamo, la propria presenza e quindi il proprio impegno nel tempo a venire. Natale è sì dare e ricevere presenti, ma al fine di renderci di nuovo «presenti» agli altri e rendere gli altri di nuovo «presenti» a noi".

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Tempi - pubblicato il 21/12/16
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Infatti, «la più enorme e originale delle idee alla base dell’Incarnazione è che una buona volontà s’incarni»Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo il brano “Teologia dei regali di Natale” (1910) della raccolta “Lo spirito di Natale” di Gilbert Keith Chesterton. L’opera, edita da D’Ettoris Editori e pubblicata a ottobre, è a cura di Maurizio Brunetti. 

[…]

Ora, il cristianesimo, qualunque cosa sia, è un’esplosione. Che consista oppure no nella Caduta, nell’Incarnazione e nella Risurrezione, certamente è composto di tuono, di prodigio e di fuoco. Se non è fenomenale, semplicemente non vi è in esso alcun senso. Se il Vangelo non assomiglia a una pistola che fa fuoco, è come se non fosse per nulla annunciato. E se le nuove teologie suonano come il vapore che esce lentamente da un bollitore che non tiene, allora persino l’orecchio inesperto del principiante – che non conosce né la chimica né la teologia – può rilevare la differenza tra quel suono e un’esplosione. È inutile che questo tipo di riformatori dicano di basarsi non sulla parola ma sullo spirito. Poiché sono persino più chiaramente in contrasto con lo spirito di quanto non lo siano con la parola.

A tal proposito, prendiamo un esempio fra i molti che vedono questo principio in atto: il caso dei regali di Natale. Poco tempo fa, ho letto un’affermazione della signora Eddy sull’argomento: diceva che lei non «faceva regali» nel senso grossolano, sensuale e terreno dell’espressione, ma che si sedeva immobile a pensare alla Verità e alla Purezza in modo che tutti i suoi amici sarebbero diventati, per questo, migliori. Adesso, io non dico che questo metodo sia necessariamente superstizioso o inefficace, e non c’è dubbio che, dal punto di vista economico, abbia un suo fascino. Dico solo che non è cristiano alla stessa prosaica e concreta maniera di quanto suonare una musica al contrario non sia musicale o usare un’abbreviazione come ain’t non sia grammaticalmente corretto. Non so se ci sia un testo della Scrittura o un Concilio che condanni la teoria della signora Eddy sui regali di Natale, ma la condanna sicuramente il cristianesimo, così come la vita militare condanna chi si dà alla fuga.

Le due attitudini – della signora Eddy e del cristianesimo, rispettivamente – non sono solo antagoniste a causa di differenti teologie, o di differenti scuole di pensiero: prima ancora che s’inizi a ragionare, è lo stato d’animo che è differente. La più enorme e originale delle idee alla base dell’Incarnazione è che una buona volontà s’incarni; che venga, cioè, messa in un corpo. Un regalo di Dio che può essere visto e toccato: se l’epigramma del credo cristiano ha un punto essenziale è questo. Lo stesso Cristo è stato un regalo di Natale. Una nota a favore dei regali materiali di Natale è stata buttata giù persino prima della Sua nascita, con i primi spostamenti dei saggi dell’Oriente e della stella: i Tre Magi giunsero a Betlemme portando oro, incenso e mirra. Se avessero portato con sé solo la Verità, la Purezza e l’Amore non ci sarebbero state né un’arte né una civiltà cristiana.

Questi tre doni sono stati oggetto di chissà quante omelie, ma vi è un loro aspetto cui raramente è stata riconosciuta la giusta e meritata attenzione. È alquanto bizzarro che i nostri scettici europei, mentre prendono in prestito dai filosofi orientali così tanto del loro determinismo e della loro disperazione, si prendano anche costantemente gioco dell’unico elemento orientale che il cristianesimo ha entusiasticamente incorporato, l’unico autenticamente semplice e affascinante. Intendo, cioè, l’amore degli orientali per i colori vivaci e l’eccitazione infantile che hanno di fronte al lusso. Uno dopo l’altro, gli scettici hanno invariabilmente giudicato la Gerusalemme nuova di san Giovanni un ammasso di gioielli vistosi e di cattivo gusto. Uno dopo l’altro, hanno denunciato i riti della Chiesa come esibizioni pacchiane di viola sensuale e d’oro sgargiante. In realtà, nelle sue scelte, la Chiesa si dimostrò molto più saggia sia dell’Europa che dell’Asia. Si accorse, infatti, che l’appetito orientale per il rosso, l’argento, il verde e l’oro era di per sé innocente e appassionato, sebbene dissipato dalle civiltà inferiori per il loro indulgere alla mollezza e alla tirannia. Al contrario, vide insito nella stoica sobrietà di Roma – sebbene apparentata all’equità e allo spirito pubblico della civiltà più elevata che esistesse allora – un latente pericolo di rigidità e di orgoglio. La Chiesa prese tutto l’oro multi-sfaccettato e i colori brulicanti che avevano adornato così tante poesie erotiche e tante crudeli storie d’amore in Oriente, e con quella congerie variopinta di fiaccole illuminò le gigantesche dimensioni dell’umiltà e le più grandi cromie dell’innocenza. Prese i colori dalla schiena del serpente, lasciando perdere, però, il serpente.

Il popolo europeo ha, nel suo insieme, seguito in questo la guida dell’istinto e dell’arte cristiani. Niente tira più su di morale per la nostra tradizione popolare del guardare l’Oriente come a un insieme di forme pittoresche e di colori, piuttosto che a un sistema filosofico rivale. Sebbene sia, di fatto, un tempio di vetuste cosmologie, noi lo trattiamo come un grande bazar, cioè come un enorme negozio di giocattoli. Alla gente comune, pensando al Vicino Oriente, vengono più spesso in mente le Notti arabe, piuttosto che il Profeta arabo. Costantinopoli fu conquistata da una cultura saracena che, a quel tempo, era immensamente inferiore alla nostra. Ciononostante, noi ci preoccupiamo non della cultura dei Turchi, ma dei loro tappeti. Per anni, un certo ironico agnosticismo ha pervaso l’Impero Celeste. Ma noi Europei non ci informiamo sugli enigmi della Cina, ma solo sui loro puzzle. Consideriamo l’Oriente come una sorta di colossali grandi magazzini, e facciamo bene. È la cosa che dell’Oriente è più cordiale e più umano, ed è ciò che qualcuno chiama «violenza dei suoi colori» e «cattivo gusto delle sue gemme».

Solo dagli stessi scettici moderni, che ci propongono la tetra visione del mondo dell’Oriente miscelata ai più tetri costumi dell’Occidente, potremo sapere quanto cattive siano le altre cose orientali; la ruota del destino mentale, per esempio, o le lande desolate dei dubbi della mente. Schopenhauer ci mostra il veleno del serpente senza la sua lucentezza; tutt’al contrario, la Chiesa dei primi secoli ce ne aveva invece mostrato la lucentezza senza il veleno. Cioè la lucentezza che la Cristianità era riuscita a estrarre dal groviglio delle cose orientali. L’oro si è diffuso veloce come il fuoco nella foresta fino a lambire ogni manoscritto e ogni statuto, e ha cinto stretta la testa di ogni re e di ogni santo. Ma tutto ciò ebbe origine da quel mucchietto d’oro che Melchiorre portò con sé quando attraversò il deserto per giungere a Betlemme.

Gli altri due doni sono ancor più contrassegnati dal grande segno del cristianesimo: l’apprezzamento dell’esperienza sensoriale e di ciò che è materiale. C’è persino qualcosa di sfacciatamente carnale nell’appello che l’incenso e la mirra fanno al senso dell’olfatto. Il naso non è tagliato fuori dal resto del divino corpo umano. La dignità di un organo che appare comico, per la mentalità moderna, quanto la proboscide di un elefante è invece riconosciuta con molta disinvoltura nell’immaginario orientale.

Comunque, tanto per dare un colpo al cerchio dopo averlo dato alla botte, se questa forma di asiatica luxuria è ammessa nel mistero cristiano, è solo per subordinarla a una semplicità e a una sobrietà superiore. L’oro è portato in una stalla; i re devono andare in cerca di un falegname. I Magi sono in cammino, non per trovare la saggezza, ma piuttosto una forte e santa ignoranza. Quegli uomini saggi provenivano dall’Oriente, ma si diressero verso Occidente per incontrare Dio.

Oltre a questa qualità tangibile e incarnata che rende i regali di Natale così squisitamente cristiani, c’è un altro elemento che ha un effetto spirituale analogo: intendo ciò che potremmo chiamare il loro particolarismo, la loro peculiare singolarità. Ancora una volta, a questo proposito, le nuove teorie – di cui la Scienza Cristiana è la più estesa e lucida – approdano a conclusioni sorprendentemente diverse, anzi opposte: la moderna teologia proverà a convincerci che il Bambino di Betlemme è solo un’astrazione che rappresenta la totalità dei bambini, e la Madre di Nazareth solo un simbolo metafisico della maternità.

La verità è un’altra: la narrazione della Natività ha un valore pienamente universale proprio perché riguarda una sola madre e un solo figlio, singoli e concreti. Infatti, se Betlemme non fosse particolare, non sarebbe popolare. Immaginiamo una canzone d’amore per una donna altezzosa, talmente penetrante e letale che nessun uomo – dal più umile che spinge l’aratro al principe in sella – possa fare a meno di cantarla da mane a sera; ognuno, senza eccezioni, smetterebbe immediatamente se dicessi loro che la canzone non era stata composta per una donna in particolare, ma solo, genericamente, per le donne in astratto.

Il Natale, persino nei riti più comici e casalinghi delle calze di Natale e delle scatole dei regali, è pervaso da questa particolare idea di patto d’intimità fra Dio e l’uomo – un cappello divino che si adatta perfettamente alla testa dell’uomo. Il cosmo è concepito come un ufficio postale centrale e celeste. Il sistema postale è, di fatto, rapido e vasto; ciononostante i pacchi vengono consegnati tutti, integri e sigillati. I regali di Natale sono simbolo di una protesta permanente fatta per conto del «dare» come distinto da quel mero «condividere» che i moderni sistemi di valore presentano come equivalente o superiore al primo. Il Natale rappresenta questo eccezionale e sacro paradosso: dal punto di vista spirituale, se Tommy e Molly si dessero a vicenda una moneta da sei penny, compirebbero una transazione di valore superiore rispetto alla condivisione di uno scellino.

Il Natale è qualcosa di meglio che una cosa per tutti: è una cosa per ognuno. E a chi trovi queste frasi inutili o stravaganti, o pensi che non vi sia fra di esse alcuna differenza se non la ricercatezza delle parole, l’unico riscontro possibile è quello che ho già indicato, cioè sottoporre la questione alla prova – dal valore stabile e duraturo – del popolino. Prendiamo cento ragazze a caso in una scuola e verifichiamo se non fanno alcuna distinzione fra il ricevere un fiore ciascuna o, al contrario, un giardino per tutte.

Se pertanto queste nuove scuole di spiritualità intendono dimostrare di possedere lo spirito e il segreto delle feste cristiane, devono almeno provarlo non con affermazioni astratte, ma con un ceffone di quelli speciali e inequivocabili, che lascino un segno pungente e duraturo, per esempio dimostrando di essere in grado di scrivere un canto di Natale o, addirittura, di saper cucinare una torta di Natale.

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