Tra gli ultimi contributi pubblicati da Paolo Prodi sta il volume «Giuseppe Dossetti e le Officine bolognesi» (Il Mulino, Bologna 2016): un testo che – ripreso in mano alla notizia della sua morte – acquista quasi il sapore di un «testamento» intellettuale e spirituale. In esso il lettore è accompagnato a incontrare quel peculiare ambiente bolognese, culturale ed ecclesiale, fiorito a partire dagli anni ‘50 intorno alla figura di G. Dossetti (1913-1996) e di cui Paolo Prodi è stato singolarmente partecipe.
Proprio Dossetti emerge come il vero centro d’interesse, perseguito attraverso vivaci pennellate della memoria personale tracciate sulla tela di una rigorosa prospettiva di lungo periodo: quasi che l’Autore, ripercorrendo nei decenni il ruolo che quella figura ha avuto sulla sua personale esistenza riesca a tenere insieme due paradigmi a prima vista escludentisi: la domanda sul senso del proprio percorso esistenziale e la collocazione nel tempo di colui che – di certo – è stato un costante punto di riferimento sia per le scelte concretamente compiute sia per l’assetto del proprio profilo culturale ed ecclesiale.
Il volume diventa così, senza soluzione di continuità, testimonianza, rivendicazione di un percorso umano, culturale e cristiano, finestra spalancata sui complessi decenni dal secondo dopoguerra a oggi, appello a ricercarne convincenti chiavi di lettura nella secolare transizione della modernità.
In questo ampio orizzonte vanno lette anche le precisazioni più minute, non scevre di verve polemica, intorno alla «pluralità» delle Officine e la ferma contestazione della presunta, stretta continuità tra i progetti dossettiani dei primi anni Cinquanta (Centro di documentazione) e l’attuazione del progetto dell’Istituto per le Scienze Religiose a partire dalla stagione del Vaticano II.
Oltre il livello – pure interessante – dell’aneddotica, i fatti esposti e i testi presentati acquistano un differente spessore, quando vengano inquadrati nel duplice percorso di vita che P. Prodi ripercorre nel Volume: la sua «figliolanza» da Dossetti e la progressiva elaborazione di un’originale lettura storiografica della modernità europea.
Il complesso delle argomentazioni manifesta la sua ragion d’essere in questi due cespiti ed è a essi che occorre riferirsi per coglierne l’intima ragionevolezza.
Quanto a Dossetti, il volume permette di allargare la prospettiva di riflessione sulla sua figura che molto spesso (soprattutto a livello ecclesiale) è stata ridotta in due direzioni. Da un lato egli è stato presentato come «padre nobile» della storia del Vaticano II: ne è conseguito che quest’ultima è stata legittimata dall’autorevolezza della sua personalità ecclesiale, ma – nel medesimo tempo – ciò ha comportato il rischio di ridurre il suo profilo ai paradigmi di quell’iniziativa storiografica. D’altra parte il contributo di P. Prodi permette di considerare in maniera molto meno schematica le vicende legate al cosiddetto «dossettismo» politico e al suo ruolo in quella particolare stagione dell’impegno politico dei cattolici in Italia, con speciale rilievo alla vicenda della Democrazia cristiana.
I capisaldi della rilettura Dossetti, che emergono in filigrana attraverso la narrazione dell’autore, sono presentati sistematicamente in un testo su «Diritto e storia in Giuseppe Dossetti» (pp. 171-191).
Il binomio è emblematico: nella vita di P. Prodi questa fu l’alternativa su cui si giocò un passaggio decisivo della sua relazione con Dossetti, quando si trattò di scegliere la facoltà universitaria alla quale iscriversi: all’insistenza di questi per lo studio del Diritto il giovane Prodi oppose la scelta della Facoltà di Scienze politiche, motivata da una forte volontà d’impegno sociale e di comprensione della società contemporanea.
D’altra parte, la centralità di questa chiave di lettura va ben oltre la sua pertinenza autobiografica. Alla sua luce fatti, documenti e giudizi presentati nel Volume si compaginano in un disegno che manifesta una convincente organicità.
Muovendo dalla polarità Diritto-storia il Volume rilegge tutto l’itinerario dossettiano cogliendo nella presa d’atto di una «crisi epocale» il fulcro intorno al quale viene progressivamente elaborato un giudizio sintetico su tutta la seconda metà del XX secolo.
Sarebbe questo percorso a spiegare il progressivo avvicinarsi di Dossetti a un approccio storico, da intendersi soprattutto come presa di distanza dalla centralità del diritto e quindi da una speranza di cambiamento della società e della Chiesa appoggiata a paradigmi politico-istituzionali. Il Volume documenta la congruenza di questa lettura che permette di cogliere il senso di un cammino che va dagli anni del ritiro dalla politica fino ad alcuni degli ultimi interventi a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90.
Alimentato dalla cosiddetta «dialettica delle Due Parole» (la Sacra Scrittura e la storia) tale cammino riflessivo viene presentato da Prodi in esplicita sintonia con gli esiti della sua ricerca storica, incardinata nel paradigma del «dualismo moderno».
Queste pagine offrono così al loro autore argomenti per smarcare Dossetti dall’accusa di «integralismo», evidenziando piuttosto le ragioni di una sensibilità ecclesiale e teologica nutrita di una radicale «riserva escatologica».
In questo orizzonte si collocano le pagine dedicate gli anni del Vaticano II e ai giudizi di Dossetti sugli esiti di quell’evento. Esse gettano una luce particolare su quella stagione ecclesiale, almeno per come egli e i suoi amici la vissero.
Quando Prodi suggerisce che per il monaco bolognese nel Concilio «storia e diritto sembravano intrecciarsi finalmente nella realtà concreta» (p. 179), apre un interessante orizzonte di riflessione. Se tale valutazione è vera si comprende l’entusiasmo con cui venne accolto l’annuncio del Concilio e il grande investimento di energie che provocò nell’ambiente bolognese: si colloca in queste temperie l’enfasi su profilo «profetico» di Giovanni XXIII. A questo proposito è utile ricordare che la narrazione «bolognese» ha dato grande enfasi alla distanza di Paolo VI dal suo predecessore, addebitandogli la responsabilità di una gestione dei lavori conciliari, troppo preoccupata di istanze istituzionali e orientata a una costante mediazione tra maggioranza e minoranza di quell’Assise.
Alla luce di queste pagine risulta difficile ritenere che un tale giudizio possa essere ascritto – senza se e senza ma – alla sensibilità di Dossetti, dal momento che la maggiore attenzione ai profili procedurali e istituzionali, emersi nella conduzione montiniana del Vaticano II, non gli era di per se stessa distante. Essa, infatti, incontrava un tratto forte del suo profilo di canonista e non va dimenticato il ruolo che egli ebbe nei lavori conciliari, proprio con Paolo VI. I noti motivi di dissenso non andrebbero quindi addebitati a una riserva di metodo, ma piuttosto a una dialettica sui contenuti, come bene si evince dalle valutazioni che lo stesso Dossetti diede dei documenti conciliari, al termine dei lavori del Vaticano II. Sono ben documentati i forti rilievi critici e una certa delusione: a fronte di ciò il costante richiamo al profilo profetico di Giovanni XXIII, ben in accordo con la forte sensibilità escatologica di Dossetti, sembrerebbe puntare a finalità non propriamente omogenee a quelle sottese all’impegno profuso da Alberigo e i suoi collaboratori nel complesso cammino di recezione del Concilio. Per questi motivi, oltre un’esplicita distanza dalle attività del centro bolognese documentata in questo Volume, il Volume invita il lettore a prestare maggiore attenzione all’irriducibile complessità delle riflessioni del Monaco bolognese intorno a quell’assise ecclesiale.
Questo tracciato «dossettiano» sta alla base delle considerazione sull’«Officina bolognese» nella sua esecuzione da parte di G. Alberigo. I rilievi critici si fondano su un’esplicita riserva elevata al profilo storiografico delle chiavi di letture messe in gioco a proposito del Vaticano II e della sua recezione.
È quanto si evince dalla presa di distanza da quella che viene indicata come «misto tra storia e apologia» (p. 90), in forza del quale l’impresa della storia del Vaticano II, pur indicando nella recezione una chiave storiografica fondamentale per la rilettura del Concilio, è stata realizzata – in buona sostanza – con la «pretesa» di orientare la recezione di quell’importante avvenimento ecclesiale. Si evidenzia una singolare aporia metodologica nel percorso storiografico che, nonostante le reiterate proclamazioni di rigore scientifico e la messe impressionante di documentazione reperita e offerta, scivola inesorabilmente in una prospettiva che non è più, e non è solo, storiografica. Nei fatti appare preminente l’intenzione di legittimare, attraverso un uso raffinato degli strumenti della ricerca documentaria, una chiave ermeneutica più interessata a quello che il Concilio avrebbe potuto-dovuto essere, piuttosto che favorire una comprensione di quello che è stato.
P. Prodi ha così buon gioco a evidenziare un profilo «militante» delle tesi sostenute da Alberigo: a suo modo di vedere ciò impedì di uscire dal ristretto ambito della polemica intraecclesiale, fallendo il compito di una disamina dei mutamenti storici e sociali che si affacciano alla fine degli anni Sessanta nella Chiesa e nel mondo. Si trattava, a parere dello storico, di prendere atto che «l’approfondimento storico della fine dell’Europa delle confessioni religiose dovesse avvenire sul piano storico e sul quello teologico, ma separando in qualche modo la funzione della ricerca storica da quella teologica» (p. 115).
Questi rilievi critici affondano le loro radici nel terreno della ricerca storica sviluppata da P. Prodi intorno ai profili costitutivi della modernità e che gli ha permesso un differente approccio alle vicende passate e presenti del corpo ecclesiale.
Il volume documenta in maniera suggestiva come gli studi differenti da quelli del Diritto, hanno condotto l’autore a ritrovare nella ricerca storiografica sulla modernità alcuni, fondamentali paradigmi per interpretare il proprio presente.
In particolare al suo sguardo la stagione del Vaticano II, collocata nel lungo periodo, appartiene senza incertezze al cosiddetto «paradigma tridentino», ma così argomentando diventa assai problematico ritenerla un tempo di un assoluto «nuovo inizio», risultato di una radicale «transizione epocale», non pienamente portata a compimento per colpa delle resistenze della minoranza conciliare e di una conduzione da parte di Paolo VI, troppo attenta agli equilibri interni dell’episcopato e sempre affannosamente in cerca di deliberazioni unanimi.
Sarebbe incongruo attendersi in queste pagine anche solo l’accenno a una «contro-storia» del Vaticano II, mentre è doveroso segnalare che tutta la densa e articolata produzione scientifica di P. Prodi può offrire un contributo prezioso a quanti siano interessati a riconsiderare la collocazione nella storia del Vaticano II.
Basterà qui appena accennare quanto essa segnali tutta la fragilità del richiamo mitologico alla civitas medioevale, così presente nella sensibilità ecclesiale del XIX e XX secolo che giocò un ruolo non secondario negli anni del Concilio, soprattutto attraverso la mediazione di J. Maritain, dal quale Dossetti invitò a prendere le distanze già negli anni Cinquanta (p. 31).
Lo studioso della vita della Chiesa contemporanea trova in questo Volume non poche suggestioni e spunti di riflessione. Certamente esso conferma quanti hanno sentito con fastidio l’imporsi di una certa vulgata bolognese a proposito del Vaticano II. Molto più di valore è, però, la provocazione a prendere atto che il rigore e l’ampiezza di un approccio storiografico sono fattori imprescindibili per ogni tentativo di lettura della vita della Chiesa e della sua presenza nel mondo. Sta qui la grande lezione dello storico Paolo Prodi: la sua feconda produzione scientifica, rigorosa eppure mai disgiunta da una vivace passione civile ed ecclesiale, si offre oggi come una preziosa risorsa per la comprensione di quanto accadde nella secondo metà del XX secolo e per interrogare il tempo presente nel quale assistiamo a una singolare epoca di transizione.
*Professore ordinario di Antropologia teologica presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia a Roma. Membro del comitato scientifico del centro studi e ricerche Concilio Vaticano II della Pontificia Università Lateranense.