Un commento del teologo GIovanni Chifari in memoria del prete-teologo-giurista-politico a 20 anni dalla mortedi Giovanni Chiafari*
A vent’anni dal 15 dicembre del 1996, la memoria di don Giuseppe Dossetti sembra ancora dover esprimere tutto il suo valore profetico e testimoniale.
Chi l’ha conosciuto vede nella sua «fedeltà a Dio e al mondo» (G. Bellia) uno dei paradigmi più eloquenti per interpretare la sua esistenza. Fedeltà nel senso di sponsalità in Cristo e nella Chiesa e per questo anche verso la storia, com’è detto nel salmo: «Di te si dicono cose gloriose città di Dio» (cf. Sal 87,3). Gerusalemme come madre di tutti i popoli, vale a dire cioè che chi è in Dio, abita la città degli uomini nella costante tensione fra memoria e profezia e diviene come una sorgente dalla quale si diffondono diversi fiumi. C’è un’universalità del pensiero di Dossetti che è difficile abbracciare prescindendo da questo suo percorso nuziale, una polisemia impossibile da declinare scindendo il cammino dell’uomo da quello del discepolo, e in ultima analisi un’armonia che stenta a risuonare enfatizzando un solo interludio perché c’è anche dell’altro e inoltre si sa, anche il silenzio è musica e fa parte dello spartito.
83 anni, passando per due guerre, nato infatti il 13 febbraio del 1913, alla vigilia della prima, e poi 30enne nel pieno vortice della seconda, impegnato nella «Resistenza», e ci teneva a puntualizzare «senz’armi». Una traiettoria biografica che si può dividere in due grandi tempi, separati in ordine al tipo di servizio, ma profondamente interconnessi e sempre intimamente legati: la diaconia politica e la diaconia ecclesiale. Alla prima fase appartiene il tempo della formazione, dello studio, della docenza universitaria e dell’attività politica nella Dc e nella Costituente; mentre alla seconda il tempo del sacerdozio, del Concilio, della «Piccola Famiglia dell’Annunziata». Due tempi circa quarantennali, segnati dallo spartiacque del 1952 quando Dossetti si ritira dalla vita politica e fonda a Bologna il centro di documentazione per gli studi religiosi, nella convinzione, rileva Bellia che «il rinnovamento della cultura teologica italiana avrebbe fattivamente contribuito al rinnovamento culturale e politico del Paese» (AaVv, «Al primo posto le Scritture», 94). Un passaggio nel quale la fedeltà a Dio e al mondo appaiono in tutta la loro forza di interconnessione. Il legame fra cultura teologica italiana e cultura politica del Paese emergerà nuovamente nel 1994 quando Dossetti a due anni dalla morte, nel noto discorso di commemorazione dell’amico Giuseppe Lazzati, osservando la «perdurante debolezza e fragilità di itinerari cristiani che non giungono a riordinare o impregnare le realtà temporali secondo l’Evangelo», rilevava che era opportuno ripartire dal «compito della formazione delle coscienze», un cammino da intendere non come l’espressione di «una soggezione passiva» o di «una semplice religiosità», ma come la possibilità di «un cristianesimo profondo e autentico» che desse luogo a «un’altra eticità privata e pubblica». Ricostruire le coscienze e valorizzare il loro «peso interiore» avrebbe potuto dare un nuovo impulso culturale, sociale e politico. Era questo il modo per «uscire dalla notte».
La diaconia politica in Dossetti si lascia declinare come una «disponibilità a fare» e non «una missione a fare», una gratuità disinteressata, aperta anche all’insuccesso. Come quello che lui stesso dovette accettare nel 1956, quando per obbedienza si candidò come sindaco di Bologna, perse le elezioni, ma vide riconoscere gran parte dei suoi meriti dall’opposizione che accolse lo strumento del suo «Libro Bianco» sulla città. Per Dossetti il servizio politico andava interpretato come un tempo stabilito e contingente, per cui licenziava l’ipotesi di quei politici di professione tali per trenta o quarant’anni, motivando la sua opinione a partire dalla visione del senso globale della storia nella quale «Dio non può volere che noi siamo immersi sino a questo punto nel contingente. Dio ha un altro disegno su ciascuno di noi, qualunque sia la nostra attività».
Questa visione ampia della storia personale e globale in lui non venne mai meno. Il 22 febbraio del 1986 alla consegna dell’«Archiginnasio d’oro» a Bologna, ricordando gli anni in cui insegnava Diritto, confessava di continuare a «coltivare nel cuore in una meditazione esistenziale, sui massimi sistemi: lo Stato, la Chiesa, la società civile e politica e la comunione ecclesiale». E anche la scelta della vita monastica era da lui vista come comunione «non solo con l’Eterno, ma con tutta la storia, la storia della salvezza».
Fedeltà a Dio e al mondo dunque, una sponsalità che si lascia capire e comprendere dentro la circolarità teologale tra Parola, Eucarestia e servizio dalla quale si riflette quel «segreto di luce» (Bellia) che lega e spiega la diaconia di Dossetti come espressione di amore, di carità. E allora fin dalla gioventù la sua «concentrazione riguardava la vita spirituale e religiosa» (P. Pombeni, «Dossetti», Treccani) e i suoi stessi «voti privati» di castità si leggono come itinerario di preparazione a una sponsalità che dovrà gradualmente imparare che cosa significhi amare e servire. Processo d’incarnazione che rende il discepolo, anche inconsapevolmente in questi percorsi propedeutici, conforme al «Maestro». Ed ecco il suo impegno dentro la storia, nella cultura e nella cittadinanza. Nel cuore gli esempi, di don Dino Torreggiani e don Leone Mondelli, mediatori dei valori del servizio agli ultimi e del primato della Parola. I doni dello studio e della ricerca sono messi a servizio della comunità ecclesiale e civile, luogo di esperienza di cosa significhi accettare e accogliere l’inevidenza cui è chiamato il discepolo di Cristo.
Realtà che Dossetti raccontava definendosi, molti anni dopo, un «prestanome» o al massimo «un riferimento», oggi si direbbe anche ghost writer. Si pensi qui agli studi sui laici e istituti consacrati presentati sul tavolo di Pio XII. La democrazia, la Costituente, la Repubblica, lo Stato trova nella sua disponibilità una feconda diaconia e nel decennio successivo anche la Chiesa ne sperimenterà la mediazione nel Concilio, quando bisognava dare ordine, disciplina e orientamento. Il cammino di Dossetti indica in un certo modo la traccia di quella stagione profetica della Chiesa: l’incontro provvidenziale con il cardinal Lercaro, avvenuto proprio nel giorno della morte del padre, il suo sacerdozio (gennaio 1959), l’annuncio di Giovanni XXIII d’indizione del Concilio (gennaio 1959), la Piccola Famiglia dell’Annunziata, «luogo» centrato sul primato della Parola e dell’Eucarestia, paradigma conciliare, eredità per la Chiesa del terzo millennio. Perché quando si vivono il primato della Parola e la centralità dell’Eucarestia, subito si riscoprono i poveri, per cui si entra nel mistero del sacrificio di Cristo e lì s’impara cos’è il servizio. Da qui nasce quella Chiesa povera per i poveri, che trova la sua cifra nel ripristino dell’ordine del diaconato permanente e anche uxorato, che stava tanto a cuore di Dossetti. Per anni ripeteva: «La Chiesa non si serve del diaconato», e poi continuava: «Dove c’è la presenza di un presbitero e di un diacono ivi c’è la Chiesa e l’Eucarestia».
Se un albero, come insegna il Vangelo, si riconosce dai suoi frutti e un albero buono fa frutti buoni, nel servo umile e fedele, Giuseppe Dossetti, questi furono particolarmente fruttuosi e abbondanti.
La sua attenzione al senso globale della storia e nello stesso tempo la capacità di leggere nel profondo quanto Dio intende comunicare all’uomo mediante il dispiegarsi degli eventi; il dono di riuscire a svelare le patologie che caratterizzavano gli uomini del suo tempo; la sensibilità nel cogliere la realtà della kenosi come chiave di lettura della teologia del dopo Auschwitz, insieme a quella ricerca di senso del silenzio di Dio, lo stesso verso il quale anch’egli si volse, per ventisei anni, abbracciando l’esperienza monastica e dove poté accogliere la Parola vivificante dell’Evangelo. E ancora l’egemonia della Scrittura, la circolarità tra Parola, Eucarestia e servizio, la sua ecclesiologia di comunione, e quindi il Concilio interpretato né come evento di rottura, né come luogo di conservazione ma come un evento di grazia, la sua proposta, condivisa con il Lercaro, di una Chiesa povera per i poveri, che trova nel Cristo, povero e carico della croce, il suo modello normativo (cf. Lg 8). E da lì la restaurazione del diaconato.
Il cardinal Carlo Maria Martini in un contributo, inserito nel libro curato da don Giuseppe Bellia, «La Chiesa diaconia universale di salvezza», edito per le edizioni San Lorenzo, ha riproposto e commentato una conversazione privata, poi trascritta, avuta con Dossetti nel 1966 alla fine del Concilio. Dossetti, scrive Martini, era consapevole che una teologia del diaconato non sarebbe sorta subito ma solo dopo che il ministero fosse stato vissuto per un certo tempo nella prassi e vita delle nostre Chiese, visto i secoli di atrofia. Il Cardinale ricorda inoltre che Dossetti considerava quello del diaconato il tema «più importante dell’ecclesiologia concreta dell’avvenire», si soffermava sul fatto che già a Trento se n’era decisa la restaurazione e che, partecipando realmente all’ordine sacro, il diaconato, per il Porporato profeticamente, fosse una realtà che poteva offrire alle chiese «una localizzazione della grazia sacramentale». Un fattore che sarebbe divenuto una priorità, gli confessava Dossetti che si trattava di uno dei «modi che la Tradizione divina ha già indicato come esistenti nel deposito della rivelazione e dell’istituzione e che si devono, quindi, a priori presumere ricchi ed efficaci». Per questa ragione Dossetti vedeva «l’introduzione di un diaconato molto largo», «irraggiato» e «decentrato», e cioè come «il punto terminale della inserzione dei carismi sacramentali nel tessuto concreto della comunità cristiana». Punto chiave che per Martini avrebbe potuto generare una reale «trasformazione sociologica di una comunità cristiana» sempre «aderente alla tradizione sacramentale che la caratterizza». Martini suggerisce ancora che Dossetti auspicava una «moltiplicazione dei punti di innervamento» e che il diaconato fosse conferito a soggetti che «vivono il più possibile nella condizione comune».
In conclusione, la fedeltà a Dio e al mondo consegnata alla storia lascia che Dossetti sia annoverato tra i sapienti e i profeti: «Sapienti, che con il loro gratuito servizio sanno custodire e accrescere il tesoro lasciato in eredità da altri» e profeti, «servitori vigili e fedeli che esplorano quel futuro di Dio verso cui uomini e società sono incamminati». Dossetti cioè annoverato tra quei sapienti e profeti che «con la loro fede sofferta e perseverante, scrutando come sentinelle nella notte il disegno di Dio, ne scandiscono i tempi e ne orientano il senso». (Bellia, «Servi di chi. Servi perché», 162).
* Docente di Teologia biblica