Il racconto di Francesca Fialdini è un invito a guardare il mondo attraverso gli occhi del prossimoDa qualche anno mi capita di scambiare quattro chiacchiere con lo stesso uomo di fronte alla libreria di una importante catena nazionale, che vende i suoi libricini sull’Africa. Ogni tanto ne compro uno, a volte lo leggo, a volte lo regalo, altre lo metto lì nella mia biblioteca. Quest’uomo nero come il carbone, col sorriso, ha sempre una parola gentile per me e io per lui, chiacchieriamo, gli racconto della mia famiglia, lui della sua. Mi chiede “quando ti sposi?!” e io ridendo “presto presto! E i tuoi figli come stanno?” E lì il suo sorriso si incrina ma non sparisce. Mi fa vedere le foto, mi dice che crescono quanto gli mancano, si sente l’orgoglio del genitore e la tristezza del padre che non è a casa con loro. Perché vi racconto questo? Perché volevo parlarvi di un libricino che davvero mi ha toccato perché leggendolo mi veniva in mente il mio “amico” davanti alla libreria. L’ho letto immaginando che la voce del protagonista che scrive alla moglie la sua vita in Italia da immigrato irregolare avesse la sua di voce. Il libro è “Il sogno di un venditore di accendini” di Francesca Fialdini, volto noto di Rai Uno (Uno Mattina, A Sua Immagine, Lo Zecchino d’Oro), per le edizioni Città Nuova. Il libro è una storia vera sotto forma delle lettere che Youssou manda alla moglie in Senegal mentre, verso la fine degli anni ’80, lui vive nel nord Italia assieme ad altri senegalesi nella speranza di trovare “l’America” qui da noi. La sua vita di immigrato irregolare, di venditore ambulante alla ricerca disperata di un “lavoro vero”, mentre cerca di mantenere la dignità per se stesso e per i propri compagni ma anche di mantenere viva la fiamma di un buon futuro per se stesso e la sua famiglia. Nelle lettere traspare l’amore per la sua famiglia, la nostalgia per l’Africa, le delusioni per la condizione del Senegal ma anche per ciò che ha trovato in Italia, piena di sfruttatori, ma anche il desiderio di integrarsi, di ricevere dignità con un contratto regolare, con diritti e doveri certi, l’amore per il paese che lo ospita, il sogno del ricongiungimento. Ma nella solitudine c’è anche la consapevolezza e la voglia di riscatto che si concretizzano alla fine della storia in una pagina di grande densità:
Camminando liberamente sulla spiaggia, con la merce appoggiata al muretto a ridosso della strada, sentivo crescere dentro una forza nuova, un’energia rinnova. Fifito mi aveva tolto la maschera e adesso potevo vedere il mio vero volto; sentivo la brezza del vento che mi puliva la pelle, scuotendomi di dosso una polvere antica come il deserto del Senegal: ero figlio della mia storia, divisa – come Dakar – tra povertà e incoerenze. Figlio della storia della mia famiglia, del mio Paese colonizzato, sfruttato, usato. Figlio di secoli di storia e di oppressioni, di libertà sperate e tradite, di sogni incompiuti, di padri frustrati, di civiltà perdute, di tradizioni nutrite con il sudore e la schiavitù.
La mia sofferenza era stata pure il mio alibi e ora ai miei stessi occhi non reggeva più. Non volevo più recitare la parte dello schiavo a vita. «Io sono un uomo libero. Io sono un uomo. Io sono Youssou, ho 27 anni e vengo da una delle terre più belle del mondo».
Le lettere di Youssou alla moglie Fatima sono dense di poesia, di amore, di nostalgia, in quel dialogo a distanza tra marito e moglie in cui chiede scusa per la partenza, ricorda come si sono conosciuti, chiede consiglio e la forza di continuare, in una epoca senza telefonini e con i gettoni per telefonare. Una storia scritta non per suscitare pietà, ma empatia, per ricordarci che gli Youssou sono attorno a noi, parte integrante delle nostre città, che hanno bisogno di essere “visti”, cioè riconosciuti nella loro dignità di persone. Parlano lingue diverse dalla nostra, spesso sono di religioni diverse dalla nostra, ma la ricerca che fanno, le molle che li muovono sono le stesse: l’amore, la famiglia, il pane e la dignità per i figli. Poche pagine per mettersi nei panni di un altro, chiedendosi “e se fossi stato io l’emigrante negli anni ’80?”, poi ripenso ai fratelli di mio nonno, tutti partiti per il Sud America dalla Calabria, dopo la Guerra e penso che ho tanti parenti che non ho nemmeno conosciuto che sono stati “Youssou”…