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Cardinal Scola: le emergenze dell’Europa e il ruolo dei cristiani

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Andrea Tornielli - Vatican Insider - pubblicato il 06/12/16
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Il discorso alla città: «Siamo chiamati a partire dalla realtà per lasciar emergere l’ideale, un senso per un cammino comune europeo»Gli attentati fondamentalisti nel cuore del Vecchio Continente, la Brexit e i populismi nazionalistici «ci costringono a chiederci: quale Europa vogliamo?». Ma la domanda «potrebbe essere considerata ingenua», perché ci siamo «tranquillamente assuefatti» alla crisi e siamo di fronte ad «emergenze per le quali» l’Europa «non sembra avere sufficiente pensiero, né forza politica». Per questo i cristiani sono chiamati «a partire dalla realtà per lasciar emergere l’ideale, un senso per un cammino comune europeo». Nel tradizionale discorso alla città nella vigilia della festa di sant’Ambrogio il cardinale Angelo Scola si interroga sul futuro dell’Europa e di Milano.

L’arcivescovo analizza in prospettiva storica il cammino comune europeo dal dopoguerra, notando come «la scelta di uno strumento economico per raggiungere un’integrazione anche politica nel tempo non poteva non provocare qualche disfunzione». È difficile, infatti, «non accorgersi che quella economica è rimasta la prospettiva prevalente con cui la Comunità si è progressivamente avvicinata a tutti i settori che entrano nella sua sfera d’azione». Con il Trattato di Maastricht, dice ancora il cardinale, è iniziata «una seconda tappa dell’avventura comunitaria nel processo di integrazione: raggiunto l’obiettivo del mercato unico nel 1992, si cerca ora di procedere ad integrare politiche ulteriori a quelle economiche, iniziando a intaccare il nucleo forte della sovranità nazionale. Ed ecco allora che gli ideali posti alla discussione diventano più chiaramente quelli della democrazia e dei diritti , toccando materie delicatissime, di politica estera ed interna».

Un «passo avanti», certo, ma anche una difficoltà, perché «il nuovo viene gestito secondo le regole del diritto internazionale» e «fa regredire il nobile sforzo di Europa Unita ad una – sia pur ampia e sofisticata – organizzazione internazionale». Lo sviluppo nell’integrazione all’inizio del millennio è stato soprattutto caratterizzato dalla moneta unica, ma l’assenza di comunanza politica ha determinato alla lunga la crisi che stiamo vivendo.

Scola fotografa quindi il declino dell’Europa attraverso quattro emergenze: il terrorismo, l’ondata migratoria, la crisi finanziaria e la crisi politica. Si tratta, ha osservato della punta di un iceberg «ben più imponente» e vanno considerate come «indicatori sintomatici ed interconnessi di una degenerazione progressiva e come segnali di allarme per innescare un pensiero e un’azione comuni e lungimiranti». All’ondata migratoria provocata anche dalla destabilizzazione del Medio Oriente si risponde «con un approccio reattivo e in ordine sparso»: si assiste all’«incapacità di pensare anzitutto in termini di accoglienza», e alla spinte che «vorrebbe legittimare il diritto di escludere».

Ci sono poi la crisi finanziaria che dal 2008 non allenta la sua presa, e la crisi politica. «I luoghi del potere sono oggi più diffusivi, meno identificabili, più anonimi. L’esempio dei poteri reali delle tecnologie e delle comunicazioni documenta in modo eloquente quanto profondamente ed estensivamente si siano alterati i rapporti sociali e i rapporti tra società e poteri pubblici». A queste quattro emergenze va aggiunta, per il cardinale, «la gravissima situazione demografica in cui versa il nostro paese: solo nell’ultimo quadriennio abbiamo perso il 15% dei nati. Senza decise politiche a medio e lungo termine che favoriscano radicalmente la famiglia non si vede come si possa fare fronte a questa ancora inavvertita tragedia».

È necessaria dunque, continua l’arcivescovo di Milano, «una nuova visione dell’Europa che, da una parte, valorizzi quella molteplicità culturale che da sempre la caratterizza e, dall’altra, permetta agli stessi Stati di ritrovare la necessaria unità per rispondere alle sfide dei tempi, prime fra tutti l’immigrazione e la sicurezza». Nessuno Stato nazionale è in grado di affrontare questa situazione da solo, «l’Europa non è un’opzione, ma una vera e propria necessità». E non si può rinunciare «ad un ideale comune che, in qualche modo, funga da principio unificatore e riesca a far evolvere l’incipiente declino in un benefico travaglio».

«Siamo chiamati – afferma Scola – a partire dalla realtà, nelle sue urgenze concrete, per lasciar emergere l’ideale. L’ideale, non l’utopia, vale a dire un senso (significato e direzione) per un cammino comune europeo». Servono «nello stesso tempo grande realismo e grandi ideali». È necessario guardare alle radici dell’Europa, ma «non basta». Il cardinale cita l’apporto fondamentale del cristianesimo e spiega: «Senza tener conto delle “implicazioni” antropologiche, sociali e culturali contenute nella rivelazione trinitaria – dalla singolare visione della dignità della persona e dell’insuperabilità della differenza sessuale, alla concezione della libertà e del suo rapporto con la verità, fino alla salutare distinzione tra società civile e dimensione religiosa e al riconoscimento del valore della sussidiarietà e della solidarietà – è difficile dar conto di cosa intendiamo con la parola Europa. In questo quadro invece tutte le differenze etniche, nazionali e linguistiche finiscono per consolidare, non per corrodere, un patrimonio comune nel senso etimologico del termine».

Certo, ammette il cardinale, «questo non significa che l’Europa possa, in modo quasi indolore, trovare facili accomodamenti tra i diversi soggetti in campo. Il “meticciato di civiltà” è un processo e non un programma prescrittivo; ma gli europei, oserei dire soprattutto i cristiani, hanno tutti gli strumenti culturali per raccogliere la sfida della pluralità». Si tratta – aggiunge – di «ripensare gli assiomi su cui poggiano le nostre democrazie procedurali e il principio di laicità sul quale intendono reggersi». «L’espressione “Europa famiglia di popoli”, ripetuta da papa Francesco nei discorsi rivolti all’Europa , dice bene il compito storico che la attende: non un superstato né una raffinata tecnocrazia, ma una convivenza delle diversità, capace di farle collaborare e di integrarle nell’orizzonte di senso proprio un umanesimo personalista».

Quale compito dunque per i cristiani? Occorre rivolgere loro «l’invito ad annunciare e vivere i misteri della fede cristiana quale principale contributo ad una società plurale dal volto umano. In questo senso, potremmo affermare che, nell’odierno contesto storico europeo, ripensare la forma della fede è la preoccupazione cruciale, senza la quale la possibilità di proporre a tutti le implicazioni antropologiche, sociali e cosmologiche dei misteri cristiani è destinata alla sterilità o, peggio ancora, a determinare non una cristianizzazione del mondo, ma una mondanizzazione del cristianesimo».

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