Con un ritardo di più di un anno sui tempi di tabella, la IX Conferenza dei rappresentanti cattolici cinesi – massima istanza della politica religiosa di Pechino nei confronti della Chiesa cattolica locale – dovrebbe svolgersi – salvo imprevisti – appena dopo Natale, probabilmente dal 26 al 30 dicembre. Lo riferiscono fonti di Pechino consultate da Vatican Insider. Intanto oggi – mercoledì 30 novembre – sono state celebrate due ordinazioni episcopali, avvenute con il consenso espresso in tempi diversi dalla Santa Sede e dagli organismi che amministrano la politica religiosa di Pechino: nella diocesi di Ankang (provincia dello Shaanxi) è stato ordinato vescovo il sacerdote Wang Xiao Xun, mentre nella diocesi di Chendu (provincia del Sichuan) l’ordinazione episcopale è stata conferita a padre Tang Yuan Ge. Il prossimo 2 dicembre, il sacerdote Lei Jia Pei sarà ordinato nuovo vescovo di Xichang, sempre nella provincia interna del Sichuan. Alla liturgia per l’ordinazione episcopale svoltasi a Chendu ha preso parte, non in veste di consacrante, Paolo Lei Shiyin, vescovo illegittimo di Leshan, ordinato senza approvazione del Papa il 29 giugno 2011. Dopo la sua ordinazione, un comunicato diffuso dalla Santa Sede aveva dichiarato pubblicamente la scomunica automatica (latae sententiae) in cui era incorso sia lui che altri due vescovi illegittimi ordinati in quei mesi. Lei Shiyin potrebbe essere presente anche alla ordinazione episcopale prevista il 2 dicembre a Xichang.
Le ordinazioni episcopali di questi giorni confermano quanto sia connotata da segnali contrastanti la fase vissuta dalla Chiesa cattolica in Cina. Da una parte, esse allungano la nuova sequenza dei vescovi consacrati negli ultimi anni con approvazione sia della Santa Sede che del governo cinese. E questo mentre l’agenzia Ucanews, citando nei giorni scorsi “fonti” anonime, ha riferito che i colloqui bilaterali riservati dei rappresentanti della Santa Sede e del governo cinese sui punti dolenti da decenni al centro di conflitti, prepotenze e incomprensioni – a cominciare proprio dalle procedure per la selezione e le ordinazioni dei vescovi – hanno avuto un ennesimo round nel mese di novembre. Nel contempo, la presenza dell’illegittimo Lei Shiyin alle ordinazioni di vescovi in piena e dichiarata comunione con la Santa Sede confonde le coscienze di molti cattolici cinesi, e accredita i dubbi sull’affidabilità dei negoziatori cinesi e sulla sincerità dello stesso vescovo, in vista di un eventuale cammino di perdono e di legittimazione canonica della sua ordinazione illecita.
Nel prossimo futuro, anche l’Assemblea dei rappresentanti cattolici cinesi prevista per fine anno diventa un test per verificare anche la consistenza del “nuovo corso” dei rapporti tra Cina Popolare e Santa Sede.
Quell’assise rappresenta l’organismo più alto tra gli apparati che applicano la politica religiosa delle autorità cinesi alla Chiesa cattolica. In essa, i rappresentanti delegati di tutte le diocesi registrate presso l’amministrazione statale vengono convocati di regola ogni 5 anni per distribuire le cariche negli organismi ufficiali che sovrintendono la vita della Chiesa cattolica in Cina, compresi l’Associazione patriottica dei cattolici cinesi e il Collegio dei vescovi (organo non riconosciuto dalla Santa Sede, che raccoglie solo i vescovi cattolici cinesi, legittimi o illegittimi, riconosciuti dal governo).
Per cogliere le implicazioni chiave dell’Assemblea di fine anno, conviene tener conto i precedenti. Nel 2010, proprio la convocazione e la realizzazione dell’VIII Assemblea dei rappresentanti cattolici cinesi, tenutasi a Pechino dal 6 all’8 dicembre di quell’anno, segnò ufficialmente il passaggio da una stagione promettente a una fase catastrofica del rapporto tra apparati politici cinesi e Chiesa cattolica. Dopo la Lettera di Benedetto XVI ai cattolici cinesi, dal 2007 al 2009 era stato avviato il dialogo riservato tra rappresentanti del governo cinese e della Santa Sede (questi guidati da Pietro Parolin, allora vice-ministro degli esteri vaticano) sulle procedure per la selezione dei vescovi. Soltanto nel periodo tra aprile e novembre 2010 erano stati ordinati in Cina dieci vescovi con l’approvazione sia della Santa Sede che di Pechino. Ma poi le cose erano precipitate. Nel 2009 Parolin, nominato Nunzio apostolico in Venezuela e ordinato Vescovo da Papa Benedetto XVI, aveva lasciato Roma per iniziare la sua nuova missione. Il 25 marzo 2010, in vista dell’assemblea dei rappresentanti cattolici, la Commissione vaticana per la Chiesa in Cina – organismo consultivo costituito in quegli anni, comprendente officiali vaticani e “esperti” provenienti anche da Hong Kong – alla fine della riunione annuale aveva diffuso un comunicato in cui, tra le altre cose, si invitavano i vescovi cinesi a evitare «di porre gesti (quali, ad esempio, celebrazioni sacramentali, ordinazioni episcopali, partecipazione a riunioni) che contraddicono la comunione con il Papa, che li ha nominati Pastori, e creano difficoltà, a volte angoscianti, in seno alle rispettive comunità ecclesiali». Nelle settimane seguenti, tre vescovi cinesi riconosciuti dal Papa ma approvati anche dagli apparati governativi cinesi avevano confidato all’agenzia Ucanews che l’auspicio espresso dalla Commissione vaticana li aveva messi «in una posizione difficile». Avevano fatto anche notare che la partecipazione a un’ordinazione illecita non poteva essere equiparata per gravità a un eventuale atto di presenza a un congresso nazionale «che non ha niente a che fare con lo spirito della Chiesa», essendo convocato dal governo.
All’Assemblea dei rappresentanti del dicembre 2010, molti dei 45 vescovi presenti e degli altri delegati furono spinti a partecipare con pressioni e in alcuni casi con l’uso della forza. La Santa Sede, qualche giorno dopo, espresse in un comunicato il «profondo dolore» per i fatti accaduti e la persistente volontà degli apparati politici cinesi di «ingerirsi nella vita interna della Chiesa cattolica». Nel frattempo, il 20 novembre, a Chengde c’era stata l’ordinazione illegittima del vescovo Giuseppe Guo Jincai, la prima avvenuta dall’anno 2000 senza il consenso del Successore di Pietro. A tale atto, tra giugno e luglio 2011 erano seguite in Cina altre tre ordinazioni episcopali celebrate senza mandato apostolico, compresa quella del vescovo Lei Shiyin.
In precedenza, negli anni di Giovanni Paolo II, dal Vaticano non erano mai state fatti pubblici richiami ai vescovi cattolici a non partecipare alle Assemblee dei rappresentanti cattolici cinesi. In via ufficiosa, si facevano arrivare ai vescovi in comunione con Roma indicazioni e suggerimenti affinché difendessero per quanto possibile anche in quel contesto la natura propria della Chiesa cattolica da manomissioni teoriche e pratiche operate in nome dei principi ispiratori della politica religiosa nazionale. Ad esempio, all’Assemblea dei rappresentanti cattolici cinesi del gennaio 1998, i vescovi presenti – ispirati da Antonio Li Duan, il grande vescovo di Xian scomparso nel maggio 2006 – avevano fatto sentire con forza la loro voce per chiedere che la guida effettiva della compagine ecclesiale fosse affidata al Collegio episcopale, riducendo le interferenze dirette dell’Associazione patriottica.
Se da qui a dicembre la Santa Sede non farà pubblici richiami ai vescovi a non andare all’Assemblea, tale scelta sarà in piena continuità con la prassi precedente, fatto salvo il caso verificatosi nel 2010. Oggi come allora, i collaboratori del Papa sanno bene che tale organismo non ha alcuna legittimazione ecclesiale. Ma anche la storia recente ha confermato che il problema non si risolve facendo pressioni sui vescovi cinesi. E che proprio loro, con la fiducia della Santa Sede, sono chiamati coi loro interventi a garantire che i lavori dell’Assemblea non pongano in atto disposizioni contrarie alla natura sacramentale e alla grande disciplina della Chiesa.
Ovviamente, eventuali pressioni e misure coercitive perpetrate dagli apparati cinesi in occasione della prossima IX Assemblea dei rappresentanti cattolici cinesi – analoghe a quelle che si verificarono nel 2010 – sarebbero incompatibili con la «sincerità» ufficialmente sbandierata da Pechino riguardo alla sua intenzione di «migliorare i rapporti» con il Vaticano. Anche per questo, la gestione e gli eventuali sviluppi di tale assise rappresenta un test importante.