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Tobin: con Trump né benedizioni né antagonismi “a priori”

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Vatican Insider - pubblicato il 25/11/16
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Intervista con il neo-cardinale redentorista: la «balcanizzazione» della Chiesa in USA è «alimentata da persone che continuano a parlare solo con quelli con cui sono d’accordo». di Gianni Valente

 

Respinge il «soprannome» di «Principe della Chiesa». Consiglia di aspettare e osservare con attenzione le «decisioni concrete» del nuovo Presidente USA, senza antagonismi o benedizioni «a scatola chiusa». Ricorda la nonna immigrata dall’Irlanda, che pregava solo in irish, «perché non era sicura che Dio capisse l’inglese». Il neo-cardinale Joseph William Tobin, da poco trasferito anche dalla sede arciepiscopale di Indianapolis a quella di Newark, racconta che nella sua nuova arcidiocesi la domenica si celebrano messe in 22 lingue. E fa affidamento, nella sua nuova missione, anche alla vocazione missionaria dei Padri Redentoristi, la Congregazione religiosa a cui appartiene: «Sarà una esperienza eccezionale della sfida che abbiamo davanti in tutte le parti del mondo: annunciare la buona novella ai poveri, rispettare la bellezza delle culture, imparare a essere evangelizzati da coloro che noi serviamo, e infine aiutare le persone a crescere nell’amore per Gesù Cristo, l’unico Redentore».

L’intervista si svolge a via Merulana, nella sede romana di Scala News, l’organo di comunicazione dei Padri Redentoristi, con la collaborazione di Carlos Espinoza.

Arcivescovo Tobin, adesso anche Lei è un principe della Chiesa… La Chiesa ha ancora bisogno di principi?

«Ma io non sono un “principe”, non accetto questa specie di “soprannome”… Io non credo che i prìncipi abbiano bisogno della Chiesa, e che la Chiesa abbia bisogno di principi. Io credo che la Chiesa ha bisogno di missionari. E questo voglio essere. Questo invito del Papa a servire nel Collegio dei cardinali, lo prendo come un modo diverso di continuare a essere missionario».

Lei ha parlato in passato del pericolo di una polarizzazione per blocchi ideologici della Chiesa negli USA, usando il termine efficace di «balcanizzazione». Quale è la radice di questo fenomeno?

«Anche il Papa ha parlato di questo fenomeno, pur senza usare l’espressione “balcanizzazione”. Io l’ho usata un paio di anni fa, nel 2014, parlando alla College Theology Society degli Stati Uniti. “Balcanizzazione” vuol dire frammentazione, divisione lungo direttrici ideologiche. E la frammentazione viene alimentata da persone che non si parlano tra loro da lungo tempo, e continuano a parlare solo con quelli con cui sono d’accordo. Io credo che negli USA c’è questo rischio, perchè questa balcanizzazione davvero già esiste nella società americana. Lo si è visto in maniera impressionante durante l’ultima campagna elettorale per le elezioni presidenziali. È davvero triste quando questo tipo di tendenze penetrano in maniera acritica nella Chiesa cattolica».

Non c’è il pericolo che anche in USA questa balcanizzazione si polarizzi intorno alla figura del Papa, dividendo la Chiesa in «tifosi» pro o contro Francesco?

«Certo, ci sono persone per le quali il Papa stesso è diventato segno di contraddizione. Io posso dire anche che il Papa unisce le aspettative di tanti nel mondo. Su questo non c’è alcun possibile dubbio. E quelli che non sono sempre d’accordo con lui sono convinto che sono una minoranza. Una minoranza che fa chiasso, ma una minoranza».

Il nuovo corso politico, segnato dall’elezione presidenziale di Donald Trump, che effetti può avere su questo scenario «balcanizzato»?

«Certo, il messaggio lanciato dal Presidente eletto non era un messaggio fatto per unire gli americani, ma piuttosto per dividerli. E considerando i risultati, direi che ha avuto successo… Naturalmente le divisioni non sono iniziate con il Presidente Trump. Esse hanno avuto una lunga gestazione. Io ho vissuto per venti anni fuori dagli USA, e credo che uno degli aspetti più sorprendenti che ho dovuto registrare, quando sono tornato, è stato questo tipo di divisione. Per me le radici della polarizzazione, della “balcanizzazione”, non si trovano tanto nell’una o nell’altra idea o ideologia. In questo fenomeno c’è anche una reazione a un mondo globalizzato. L’idea che bisogna rafforzare le barriere per rafforzare le identità. Mi pare che anche un grande pensatore come Émile Durkheim parla della “manutenzione delle barriere”, e questo può essere importante, per una società. Ma Gesù ci chiama anche a superarle, le barriere».

I media contrappongono Trump a Papa Francesco sulla questione degli immigrati. Lei riguardo a questa problematica, ha una grande esperienza.

«La mia prima esperienza con gli immigrati è che io stesso sono nipote di immigrati. Mia nonna veniva dall’Irlanda. Lei parlava bene inglese, ma pregava solo in irlandese, perchè non era sicura che Dio capisse l’inglese… Poi ho servito comunità di immigrati quando era un giovane sacerdote, soprattutto ispanici ma anche arabi dalla Giordania e dalla Siria. Più di recente, come Arcivescovo di Indianapolis, ho avuto un disaccordo con il governatore dello Stato riguardo all’ingresso e all’integrazione di rifugiati siriani. Io penso che c’è una evidente distanza tra la posizione della nuova amministrazione degli Stati Uniti e quella della Chiesa cattolica, e della Conferenza dei vescovi cattolici».

Alcuni rappresentanti della Chiesa USA provano a «mettere il cappello» su Trump, immaginando che con lui si possano ottenere cambiamenti graditi sulle questioni pro-life. C’è invece chi dice che la Chiesa deve contrapporsi senza timidezze al Presidente designato. Secondo lei, cosa conviene fare?

«San Paolo ci comanda di pregare per chi governa. E questo è sempre il punto di partenza. Credo che il programma del Presidente Trump non è ancora molto chiaro. Quello che ha detto da candidato era un po’ confuso, anche riguardo alla problematica della difesa della vita. Aspettiamo. Credo che noi vescovi Usa come pastori, dovremo guardare con una certa attenzione alle decisioni concrete che verranno, evitando antagonismi o benedizioni a priori. Aspettiamo di vedere, e facciamo i conti con il concreto».

Secondo Lei, da redentorista, cosa direbbe Sant’Alfonso delle reazioni di contestazione dell’enciclica papale Amoris laetitia?

«Credo che Sant’Alfonso chiederebbe prima di tutto di studiare, di studiare il testo. Perchè nella Chiesa i problemi sorgono quando i confessori non studiano, e i professori non ascoltano le confessioni. Poi, penso che è molto importante tener presente che Amoris laetitia è il risultato di due Sinodi. Non è che il Papa si è messo semplicemente seduto alla sua scrivania e ha cominciato a scrivere. Lui è stato presente ai due sinodi, e ha usato quella riflessione, che noi crediamo essere stata guidata dallo Spirito Santo, per produrre il documento. Terzo, io credo che il Papa non ha semplicemente voluto proporre risposte molto specifiche a domande specifiche. Ci sono quelli a cui sarebbe piaciuto così. Invece lui ha cominciato a proporre un processo di riflessione morale, che non è semplicemente una questione di risposta sì-o-no a certe domande. Ma piuttosto, vedere come possiamo discernere la volontà di Dio, come formiamo la nostra coscienza, come conviene trattare le persone che non possono sempre vivere secondo la lettera della legge. Io credo che Sant’Alfonso troverebbe tutto questo molto familiare. Perchè questa era la questione aperta anche al suo tempo. E lui ha speso tutta la sua intelligenza non nel limitarsi a ripetere le norme, ma nell’applicarle pastoralmente, e con compassione, agli esseri umani, che sono fragili».

Il vescovo greco Fragkiskos Papamanolis ha scritto una lettera ai 4 cardinali che hanno pubblicato a mezzo stampa i loro “Dubia” su Amoris laetitia , invitandoli a chiedere perdono per aver seminato scandalo nel Popolo di Dio.

«Non ho ancora letto la lettera, ma ne ho sentito parlare e ha “stuzzicato” il mio appetito… Credo che il Papa sta favorendo la nascita di un rinnovato senso di sinodalità, così che i vescovi, anche nei loro organismi nazionali e territoriali, possano prendere le grandi questioni anche dottrinali e morali come temi di riflessione, preghiera e confronto, invece di perseguire ognuno la sua “piattaforma”».

Nella sua esperienza di pastore, può descrivere con qualche immagine concreta l’effetto della predicazione papale nell’Anno della Misericordia nella vita ordinaria delle comunità cristiane da Lei conosciute?

«L’esperienza nella mia arcidiocesi è stata molto buona. Tutti hanno accolto con gioia l’Anno della Misericordia, abbiamo avuto tante celebrazioni e iniziative, tanti progetti, che hanno avuto come chiave la misericordia. Per me, una delle esperienze che più ricordo è stata quella di parlare della misericordia nelle carceri. Io sono andato spesso a visitare i carcerati, nella mia arcidiocesi di Indianapolis, e la mia esperienza è che i carcerati colgono cos’è la misericordia, perchè non hanno ragioni per vantarsi davanti a Dio. Tutto quello che possono chiedere a Dio è misericordia. E il Papa li aiuta a riconoscere che Dio è misericordioso. Credo che questo li ha confortati e ha potuto rafforzare la loro fede durante quest’anno. Perchè io sono andato spesso nelle carceri, e ho potuto vedere il cambiamento nei prigionieri avvenuto durante il corso dell’anno».

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE

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