Il tempo della misericordia in Birmania comincia adesso. A conclusione del Giubileo, il cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, invia un accorato appello a governo, esercito, società civile, gruppi armati, leader religiosi perchè «la nazione non può più prescindere da una rapida pacificazione» nel conflitto con le minoranze etniche che ancora la insanguina. E ha la responsabilità di costruire una cultura di pace, iniziando dalle scuole, dal percorso di istruzione delle nuove generazioni.
Bo e i leader religiosi sono preoccupati per i nuovi scontri tra gruppi armati ed esercito birmano registratisi negli stati di Kachin e Karen, nonchè per le nuove violenze religiose sulla minoranza musulmana dei rohingya nello stato di Arakan, esplose proprio dopo la conferenza nazionale sulla riconciliazione delle minoranze etniche, organizzata in settembre dal governo.
Nel Paese vivono 135 etnie che, fin dall’indipendenza, hanno sempre faticato a trovare una via di convivenza con la maggioranza birmana al governo, rivendicando spazi di maggiore autonomia. Un anno fa l’armistizio firmato dall’esercito con diversi gruppi ribelli aveva restituito concrete speranze di un processo di pace, culminate con la nuova la «conferenza di Panglong», organizzata dalla storica leader Aung San Suu Kyi.
Tuttavia un vero e proprio negoziato non è ancora stato avviato e sembra ci vorranno sei mesi per elaborare la road map di un accordo che fermi conflitto e garantisca uguali diritti alle minoranze etniche, nel quadro di un sistema federale, assicurando così una pace duratura.
Il Porporato rinnova il suo invito ad accogliere e curare «chi ha il cuore spezzato, i feriti e i poveri, coltivando la misericordia nella vita quotidiana» della odierna Birmania, paese a maggioranza buddista che, rileva, ha nel suo dna questo atteggiamento.
«Viviamo tra i buddisti. Compassione (karuna) e misericordia (metta) sono i due occhi della loro fede. La misericordia è la porta attraverso cui invitiamo i nostri fratelli e sorelle buddisti a un dialogo costruttivo per la pace in questo Paese», afferma rievocando l’appello alla compassione lanciato da papa Francesco in chiusura dell’Anno santo.
Il cammino di misericordia per la Birmania, nota, inizia dal «riconoscere i propri crimini e peccati», perchè «la misericordia di Dio è più grande di qualsiasi crimine». Inizia dal «pentirsi e confessarsi, per avviare un cammino di autentica guarigione interiore». Parole che echeggiano forte per tutti coloro che, a cominciare dai militari, si sono resi colpevoli di crimini di guerra e crimini contro l’umanità o hanno commesso gravi abusi di diritti umani a danno dei civili, come denunciano molte Ong.
Il secondo passo è quello del perdono e della riconciliazione: dopo la guerra, l’odio, gli omicidi, «la misericordia è l’unico antidoto alla natura umana che grida vendetta». «Siamo chiamati a perdonare settanta volte sette» e solo un cammino verso il perdono può sanare le ferite e aprire una nuova fase nella vita della martoriata nazione. «Questo è il tempo per vivere la misericordia gli uni verso gli altri», ribadisce.
Un’altra necessità è l’attenzione a quanti oggi in Birmania sono dimenticati ed emarginati: anziani, lebbrosi, orfani, profughi. «Mentre il Paese si apre alla comunità e al mercato internazionale, un numero sempre maggiore di persone sono espulse dal sistema economico, sempre più giovani sono vulnerabili alla tratta di esseri umani e alla criminalità. Urge aprire il cuore a questi figli meno fortunati della nazione», nota Bo.
«La misericordia – rimarca – è l’unica strada capace di portare la pace in questa terra. Abbiamo subito sessant’anni di guerra. Tante persone sono state crocifisse per povertà, migrazione, disperazione. Urge la pace, qui e ora, per il popolo birmano».
Il Cardinale auspica «l’educazione alla pace per tutti, governanti e governati», ricordando la Pacem in terris di Giovanni XXIII che si rivolse a tutti gli uomini di buon volontà: «L’intera nazione ha sofferto. Abbiamo sepolto due generazioni che non hanno conosciuto diritti, nè prosperità. Oggi in tre diocesi dello stato Kachin c’è la guerra e una ondata di sfollati interni. Questa nazione ha un disperato bisogno di misericordia».
Di qui l’appello ai capi della nazione, ai leader militari e ai gruppi armati: «Mostrate la vera misericordia al popolo. Non pensate di risolvere i conflitti attraverso la guerra. Coltivate l’atteggiamento mentale della pace e dell’armonia. Portate l’educazione alla pace nei programmi scolastici, per infondere nella mente dei cittadini birmani, a partire dai ragazzi e dai giovani, una cultura di pace».
«È giunto il momento della pace e della giustizia», che sono i diritti e le attese del popolo birmano. «E la pace – conclude Bo – è il dolce frutto della misericordia».