I poveri di strada. I senza fissa dimora, i barboni, i moderni nomadi urbani, tutta quell’umanità in disagio che trascina la propria esistenza fra i centri e le periferie delle nostre città: fratelli che incontriamo quotidianamente, ma che ai nostri occhi sono diventati pressoché invisibili. Quasi parte di un moderno arredo urbano da scansare con attenzione per riprendere subito la nostra strada alla rincorsa di impegni che si accavallano togliendoci l’ultima briciola di umanità e capacità di condivisione.
Perché quei poveri non sono alieni, bensì uomini come noi che spesso solo una serie di circostanze sfortunate hanno ridotto in quello stato. «Eppure – è questo il dato con cui fare i conti, agghiacciante per alcuni versi – fra essi e il mondo di “quelli della vita normale” corre un muro impenetrabile, o piuttosto un abisso che li sottrae alla vista e li sottrae ad un isolamento totale». Parola di Roberto Cherubini, prete impegnato nella pastorale parrocchiale e universitaria a Terni e a Roma, ma anche frequentatore del mondo dei poveri della strada nel solco della Comunità di Sant’Egidio, oltre che responsabile delle relazioni esterne della Pontificia Università Urbaniana.
«Dall’incontro coi poveri per la strada si torna sazi e quasi ubriachi di vita, noi che siamo abituati alle piccole dosi di emozioni e al contagocce dei sentimenti», scrive nel suo ultimo libro frutto della sua esperienza personale (e pluridecennale perché affonda le radici alla fine degli anni ’70) di incontro coi poveri urbani. Un testo che giunge al termine dell’Anno giubilare della Misericordia per insegnarci il «linguaggio concreto della misericordia» nel significato più autentico che ci indica Papa Francesco. Per indurci ad aprire gli occhi e «vedere» gli «scartati» dalla società dell’indifferenza. Chi non ricorda quell’espressione pronunciata in uno dei suoi primissimi interventi pubblici «come mi piacerebbe una Chiesa povera per i poveri!»?
Ma non si tratta solo di una questione relativa alla vista, spiega Cherubini, perché la disabitudine a frequentarsi ha finito per creare una sorta di evoluzione parallela dei linguaggi, ormai diventati estranei l’uno all’altro. Siamo di fronte a due grammatiche diverse e incomunicabili. Così l’intento dichiarato è quello di fornire un «dizionario minimo», quasi un prontuario tascabile, per imparare a leggere il messaggio che ci arriva dalla strada. Solo un esempio: prendiamo un temporale estivo che rinfresca l’aria o una nevicata che fa la gioia di piccoli e grandi per un mondo divenuto improvvisamente ovattato. Ci siamo mai chiesti – noi che osserviamo dalla finestra o siamo per strada per protetti da impermeabile o piumino – cosa significhi per chi vive in strada ritrovarsi coi vestiti inzuppati e l’umido che ti entra nelle ossa? E la neve che irrigidisce i cartoni, spesso l’unico riparo per la notte sempre più fredda? No, semplicemente il pensiero non ci sfiora, nonostante, a ben guardare «l’unica radice dell’umano che affonda nel terreno della fede, si scopra talvolta non senza sorpresa, che la grammatica della vita non possa essere che una sola, anche se declinata nelle mille variabili dialettali dei contesti e dei territori urbani».
E’ significato che in Italia persino a livello di scelte politiche, locali o nazionali, il fenomeno dei poveri di strada sia entrato nell’agenda dei lavori solo a partire dalla seconda metà degli anni ’80 e troverà un riconoscimento ufficiale solo all’inizio del decennio successivo con la definizione di «senza fissa dimora» mentre a livello ecclesiale è del 1981 il documento Cei («La Chiesa italiana e le prospettive del Paese») con quell’espressione che anticipava i tempi – al punto da non essere recepita appieno – che recitava «ripartire dagli ultimi». Ma è solo del 1994 forse il primo saggio sulla storia dei poveri in Occidente a firma di monsignor Vincenzo Paglia. Un ritardo di non poco conto, la cui gravità è solo in parte attenuata dalla realtà di un mondo di mondi che sfugge ad ogni generalizzazione anche se, in un mondo globalizzato, l’omologazione è sempre più spinta e l’incontro personale diventa ogni giorno più raro.
Per apprendere la lingua della misericordia che ci permette l’incontro c’è bisogno allora di pazienza, della rinuncia a credere di sapere prima di aver ascoltato e capito, e soprattutto occorre l’uso sapiente di un silenzio eloquente e interiore, ricco di attesa e fiducia nel prossimo. E la grammatica urbana, come insegna Cherubini, comprende anche cortesia, linguaggio del corpo, gratuità, persino elemosina (se dignitosa), riposo e preghiera, speranza e amicizia. «Offrire amicizia ridona la speranza di poter essere felici, riorganizza le frasi sconnesse di un discorso che ricomincia a parlare di futuro».
Roberto Cherubini, «La strada si fa maestra. Imparare dai poveri la lingua della misericordia», Ancora 2016, pp. 192, € 16,00 (disponibile anche in e-book).