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Vi spieghiamo perché la rieducazione fuori dal carcere funziona (e va incentivata)

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Gelsomino Del Guercio - Aleteia - pubblicato il 17/11/16
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Il Governo apre a Papa Francesco sui detenuti meritevoli. Il cappellano del carcere di Padova: percorsi fuori dai penitenziari per cambiare la loro vitaIl Governo Renzi continua a dire “no” al varo di amnistia e indulto che comunque sono di competenza parlamentare ma dice sì a nuove misure alternative al carcere per i detenuti meritevoli (it.blastingnews.com, 15 novembre).

E’ stato il ministro della Giustizia Andrea Orlando a spiegare a Porta a Porta su Rai1 (14 novembre) che è possibile raccogliere l’appello di Papa Francesco sulla questione del sovraffollamento carceri e sul rispetto dei diritti dei detenuti.

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L’APERTURA DEL MINISTRO

«Le parole del Papa – ha detto il guardasigilli rispondendo alle domande di Bruno Vespa sull’appello del Pontefice per misure di clemenza per i detenuti – potrebbero essere raccolte approvando – ha spiegato – il ddl sul penale che ora è al Senato». Papa Francesco, ha aggiunto il ministro della Giustizia, «non ha parlato di amnistia tout court. Ha detto infatti di tener conto dei detenuti meritevoli».

DUBBI SULL’AMNISTIA

Già in un’intervista ad Avvenire (7 novembre) Orlando, aveva espresso dubbi sulla possibilità di un’amnistia: «La praticabilità politica di un provvedimento di clemenza è ardua: per l’amnistia occorrono i due terzi del Parlamento. Ciò detto, quando lo si è fatto in passato, la deflazione è durata poco. Servono interventi strutturali ed è ciò che stiamo facendo».

IL PENSIERO DEL PAPA

Il Papa invece aveva lanciato il suo ultimo appello durante l’Omelia che ha tenuto nella basilica vaticana durante la celebrazione del Giubileo dei carcerati (Il Fatto Quotidiano, 6 novembre). C’è «una certa ipocrisia – aveva affermato Francesco – che spinge a vedere in voi solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere. Non si pensa alla possibilità di cambiare vita, c’è poca fiducia nella riabilitazione. Per questo chiedo un atto di clemenza» verso quei carcerati ritenuti idonei.

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“IL CARCERE NON E’ TEORIA”

Per comprendere il pensiero di Papa Francesco abbiamo contattato chi vive dal di dentro il “mondo” del carcere. Don Marco Pozza, cappellano presso il penitenziario di massima sicurezza “Due Palazzi” di Padova premette ad Aleteia: «Pensare di affrontare questo problema basandosi sulla letteratura del carcere è un errore. Per capire il carcere bisogna entrarci praticamente e osservare dal vivo quello che accade al suo interno».

A Padova, prosegue Don Marco, «gli “strumenti” per i detenuti sono tre: un lavoro fisico, un lavoro intellettuale e i percorsi di fede. In questo modo procediamo ad una rieducazione efficace di queste persone».

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1) IL LAVORO FISICO

«Il lavoro permette ai detenuti di pensare ad un obiettivo nella giornata. Riescono ad essere operativi ed avere uno stipendio, come impiegati in call center, pasticcerie, assemblaggio valigie. Molti di loro lavorano e producono qualcosa per la prima volta. Questo è un modo per riprendere in mano la propria vita, la propria storia».

2) IL LAVORO INTELLETTUALE

Poi c’è «il lavoro intellettuale con la redazione giornalistica che si occupa delle pubblicazioni del giornale “Ristretti orizzonti”; il progetto “Carcere e scuola” che coinvolge ogni anni seimila studenti del Veneto che vengono ad ascoltare le storie dei detenuti; i percorsi di alfabetizzazione che partono dalla scuola primaria fino all’università a cui sono iscritti oggi circa trentacinque detenuti».

3) I PERCORSI DI FEDE

Infine «i percorsi di fede sono promossi da cinque anni dalla nostra diocesi, che ha preso in mano la cura pastorale della comunità dei detenuti del carcere di Padova: dalla catechesi sino al catecumenato, con detenuti che incontrano la storia di Cristo a 30, 35 anni, e decidono di entrare a far parte della Chiesa. Certe persone, aiutate dalla lettura evangelica della loro storia, riescono ad usare un pizzico di Misericordia in più rispetto a loro stessi. Perché la cosa più difficile in carcere è aiutare queste persone a perdonare loro stessi per il male compiuto e questo accade quando il male si riconosce».

DETENZIONE ATTIVA

Nei weekend sono le parrocchie a mobilitarsi, e si sposano nelle carceri per ascoltare le voci dei detenuti. «E’ fondamentale che la detenzione sia attiva ai fini della rieducazione – sottolinea il cappellano del carcere di Padova – se lascio a se stesso un detenuto in un cella, quel detenuto ritiene che la cella sia comoda, non entra in contatto con la società. Invece il processo di conversione e rieducazione inizia quando la persona ha il coraggio di raccontare se stesso, di aprirsi e non di nascondersi».

OSPITATI IN PARROCCHIA E SEMINARIO

Portare fuori questi percorsi di recupero del detenuto, secondo Don Marco, è la scommessa che consentirebbe un salto di qualità alla detenzione. «Con la diocesi ne ospitiamo alcuni in parrocchia, seminario, perché siamo convinti che “mischiando” le persone, si manifesta quel giusto aiuto a re-inserirsi nella società. Ma, come dice il Papa, queste esperienze andrebbero aumentate. Il problema oggi è che il detenuto possiamo recuperarlo in carcere ma non sappiamo poi se fuori questo “recupero” funziona».

DUE TIPOLOGIE DI DETENUTI

Il cappellano precisa che il “premio” per i meritevoli evocato dal pontefice va inteso nel giusto modo perché «in carcere abbiamo due tipologie di detenuti: chi non vuol cambiare, perché fa della delinquenza un sua scelta di vita, e chi vuol cambiare. A questa tipologia di detenuti bisogna rivolgersi e inserirli in contesti come famiglie, diocesi, seminari, dove possono relazionarsi con altre persone. Ma attenzione – avverte Don Marco – sono percorsi che non si possono improvvisare».

LA LEZIONE DI SAN TOMMASO

Infatti «l’importante non è uscire dal carcere ma ritrovare la libertà e usarla in modo corretto. Va conosciuta la storia della persona, la tipologia di reato, e anche in questo che va trovato ambiente consono dove poterlo reinserire. E’ un lavoro certosino di “ago e filo”, che chiede una sinergia tra educatori, parroco, agenti per riuscire a cucire al meglio il “vestito” su quel determinato detenuto».

Il parroco cita San Tommaso: «La giustizia senza Misericordia diventa tortura. E la Misericordia senza la giustizia diventa dissoluzione. Il buonismo non serve a niente. Bisogna armonizzare Misericordia e giustizia. Questa è la sfida per la Chiesa e per noi preti».

“OGNUNO AL SUO POSTO”

Don Marco, infine, non è orientato a supportare la proposta di chi chiede l’abolizione del carcere. «Io dico che ognuno deve stare al suo posto. Se la Magistratura relega una persona al carcere duro è perché ci sono degli elementi oggettivi che lo stabiliscono. Il carcere non deve essere abolito».

“PERCHE’ ABOLIRE IL CARCERE”

Chi invece è schierato con questa tesi “estrema”, sono Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta autori del libro “Abolire il carcere” (Chiarelettere). «Perché fare a meno del carcere? Semplice: perché a dispetto delle sue promesse – è la loro tesi – non dissuade nessuno dal compiere delitti, rieduca molto raramente e assai più spesso riproduce all’infinito crimini e criminali, e rovina vite in bilico tra marginalità sociale e illegalità, perdendole definitivamente».

E ancora perché il carcere «mette frequentemente a rischio la vita dei condannati, violando il primo degli obblighi morali di una comunità civile, che è quello di riconoscere la natura sacra della vita umana anche in chi abbia recato intollerabili offese. E sia per questo sottoposto alla custodia e alla funzione punitiva degli apparati statali».

ALTI TASSI DI RECIDIVA

Nel libro Manconi e gli altri autori evidenziano due tesi. La prima è che il sistema penitenziario è fallimentare sopratutto perché i tassi di recidiva sono molto alti. Il primo studio, del 2007, è stato eseguito da Fabrizio Leonardi, direttore dell’Osservatorio delle misure alternative presso la direzione generale dell’esecuzione penale esterna del ministero della Giustizia. Secondo i dati raccolti quasi sette condannati su dieci commettono un nuovo reato dopo avere scontato la pena in carcere.

PENE NON DETENTIVE

La seconda tesi per il “no-carcere” è che negli altri ordinamenti c’è un ampio ricorso alle pene non detentive, «dimostratesi molto più utili nella prevenzione della recidiva e nel reinserimento sociale».

E allora ecco le proposte che si potrebbero utilizzare maggiormente anche in Italia. «Vi sono delle sanzioni caratterizzate dalla privazione temporanea della libertà personale, limitata a determinati periodi, che permette dunque al condannato di non essere del tutto escluso dalla realtà esterna e dalla vita abituale. A questa categoria appartengono la semidetenzione (che comporta l’obbligo di trascorrere le ore serali e notturne all’interno dell’istituto).

Gli arresti del week end sono stati introdotti prima in Belgio (a titolo di frazionamento delle pene detentive brevi) e poi in Spagna, Grecia, Portogallo e Gran Bretagna, come privazione della libertà dalle ore 14 del sabato (in alcuni casi dalle 19 del venerdì) alle 6 del lunedì successivo

PENA A CASA

La pena a casa è una misura a cui negli altri ordinamenti si fa ampio ricorso, a titolo di pena principale, sostitutiva o alternativa al carcere, con o senza sorveglianza elettronica ed eventualmente anche con l’autorizzazione a svolgere attività lavorative extradomiciliari (come nell’house probation inglese, in Svezia, Finlandia, Olanda e Francia).

LIBERTA’ DI PROVA

La libertà in prova, invece, prevede la sostituzione totale o parziale della condanna, subordinata all’esito favorevole di un periodo, come dice il nome stesso, di prova. Tra i modelli spicca la rinuncia all’esercizio dell’azione penale (e dunque anche all’accertamento della responsabilità) condizionata al buon esito del probation (diffusa in Norvegia, Finlandia e Belgio),

PRESTAZIONI LAVORATIVE

Anche al di fuori dell’imposizione di prestazioni lavorative quale misura sostitutiva di pene pecuniarie inesigibili (introdotta per la prima volta in Francia nel 1859, e tuttora vigente anche in Germania e Islanda), alcuni ordinamenti configurano le prescrizioni lavorative (con il consenso del condannato) come sanzione autonoma o come possibile contenuto degli adempimenti imposti in sede di sospensione condizionata della pena con affidamento in prova.

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