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Don Simoni: “Seminate con fiducia, Lui ha vinto il mondo”

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Vatican Insider - pubblicato il 13/11/16
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Sabato 19 novembre papa Francesco terrà un concistoro per la nomina di tredici nuovi cardinali. Fra loro vi sarà don Ernest Simoni, anziano sacerdote albanese (ha 88 anni) sopravvissuto alla durissima persecuzione del regime comunista di Enver Hoxha; il Pontefice ascoltò la sua toccante testimonianza il 21 settembre 2014, a Tirana, e si commosse profondamente, sino alle lacrime.  

Padre Simoni (cui il giornalista Mimmo Muolo ha dedicato il volume «Dai lavori forzati all’incontro con Francesco», Edizioni Paoline) è nato il 18 ottobre 1928 a Troshani, un paese a pochi chilometri da Scutari. Da bambino entrò nel collegio dei francescani a Troshani iniziando il percorso di studi per la formazione al sacerdozio. Nel 1948, il regime – che aveva cominciato a perseguitare la Chiesa – si accanì contro il convento: tutti i frati vennero fucilati mentre il giovane Ernest (aveva 20 anni) fu inviato a insegnare in alcuni sperduti villaggi sulle montagne: qui il suo lavoro di maestro divenne occasione per svolgere un’opera missionaria ed evangelizzatrice. Venne poi mandato a fare il servizio militare: furono due anni terribili; lo raccontò don Ernest al Papa: «Mi presero nell’esercito per farmi sparire». Clandestinamente riuscì poi a concludere gli studi di teologia e il 7 aprile 1956 fu ordinato sacerdote a Scutari. Nella notte di Natale del 1963 fu arrestato e condotto nel carcere di Scutari, in cella d’isolamento: tre mesi di brutali interrogatori, botte, fame e freddo. Dopo un processo farsa, venne condannato a morte, ma la pena fu poi commutata in 25 anni di lavori forzati: ne scontò 18, lavorando in condizioni disumane in una cava di pietre e nelle miniere. Nel 1981 fu liberato perché si era dimostrato disciplinato, ma il suo calvario proseguì: considerato “nemico del popolo”, fu obbligato a lavorare nelle fogne di Scutari ed esercitò il suo ministero clandestinamente sino alla fine del regime, nel 1990. Da allora ad oggi ha continuato a servire il suo popolo in molti villaggi, prodigandosi anche per la riconciliazione di persone e famiglie divise dalle faide.  

In occasione dell’imminente concistoro gli abbiamo rivolto alcune domande.  

Cosa ha pensato quando ha saputo della nomina a cardinale?  

«Avevo appena terminato di celebrare la messa e seguivo la recita dell’Angelus in televisione: quando ho sentito papa Francesco pronunciare il mio nome, sulle prime ho pensato di non aver capito bene. Non mi sarei mai aspettato di diventare cardinale. Ne sono molto contento, non per me, ma per la mia gente: questa nomina infatti rende omaggio al popolo albanese e ai suoi martiri, che molto hanno sofferto per il loro attaccamento e la loro fedeltà a Gesù. Vorrei aiutare le giovani generazioni – nelle quali la fede si è indebolita – a seguire con slancio e convinzione Gesù, a obbedire ai dieci comandamenti, senza i quali nessun uomo e nessuna società può avanzare e progredire». 

Cosa maggiormente la colpisce di papa Francesco?  

«Il Santo Padre è un uomo che guarda Gesù con amore e riesce a trasmettere l’amore di Lui a tutti gli uomini, specialmente a coloro che più soffrono nella carne e nello spirito; riesce a infondere consolazione a quanti ne hanno bisogno e mostra una cura grande e amorevole per i poveri. Papa Francesco prega per le miserie del mondo, vuole trasmettere la misericordia di Dio all’intera famiglia umana, seguendo Gesù che è venuto a salvare il mondo e cercare i peccatori (e lo siamo tutti). Con il suo volto angelico, ci ricorda costantemente la promessa di Gesù, l’unica che siamo certi verrà esaudita. Le promesse di questo mondo sono vane». 

Durante gli anni della prigionia come ha superato i momenti di paura, di scoraggiamento, di angoscia?  

«Non sono mai giunto alla disperazione perché avevo fiducia in Gesù che è la vita, la verità, la salvezza per ciascuno di noi: nessuno è abbandonato da Lui. Ho sempre sentito, nei miei lunghi anni di prigione, che il Signore mi era accanto. Pregavo molto, in particolare il Santo Rosario, e assistevo spiritualmente i miei compagni di tribolazione. Ho superato i momenti duri (e ne ho vissuti molti) non grazie alle mie forze ma allo Spirito Santo: era Lui infatti a sostenermi, a non farmi sentire solo, a generare in me la fiducia nel Signore». 

Che ruolo ha avuto la preghiera nella sua vita?  

«È stata fondamentale: ho obbedito a Gesù che ha detto “Pregate senza intermissione”, ossia pregate sempre. La preghiera è il martello che schiaccia le insidie di satana. Con la preghiera noi coltiviamo e manteniamo l’amore per Gesù, senza il quale non è possibile progredire nella vita poiché Lui solo è la vita e la risurrezione. Come diceva san Paolo, senza la risurrezione di Gesù vana sarebbe la nostra fede: certo, i Suoi insegnamenti resterebbero comunque importanti per condurre una vita buona, ma la risurrezione è decisiva: il Figlio ha sconfitto la morte e ci porterà con sé nella vita eterna: lo ha detto, dunque accadrà. Dobbiamo pregare senza stancarci e seguire Gesù che ci condurrà alla gioia senza fine».  

C’è un passo del Vangelo che le è particolarmente caro?  

«Non saprei sceglierne uno in particolare perché tutte le parole di Gesù, per me, sono bellissime e potentissime. Vorrei indicarne però uno che può aiutare coloro che si trovano nella prova, nella sofferenza, nella malattia: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi darò ristoro. Prendere il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt, 28-30). A tutti costoro Lui darà la medicina che occorre: il Suo amore che consola, rinfranca, sostiene e guida alla felicità eterna».  

Qual è il suo ricordo della messa del 4 novembre 1990, la prima celebrata dopo la fine del regime?  

«Ero felice: ricordo che quel giorno vennero molte persone; non avevano perso la speranza, non avevano perso la fede: nessuna dittatura può fermare Gesù. Ero felice di poter parlare di Lui ai fedeli, e aiutarli a seguirlo perché non chi dice “Signore, Signore” entrerà nel Regno dei cieli, ma chi compie la volontà del Padre. Durante gli anni di prigionia non sono venuto mai meno al mio compito: dicevo messa a memoria, in latino, e distribuivo la comunione di nascosto: cuocevo l’ostia su piccoli fornelli a petrolio che si usavano per il lavoro oppure accendevo un fuoco con la legna che riuscivo a mettere da parte. Il vino lo sostituivo con il succo dei chicchi d’uva che spremevo. E d’inverno utilizzavo boccette con il vino che mi portavano i miei parenti». 

Che cosa significa per lei essere pastore?  

«Significa cercare di imitare Gesù e portarlo a tutte le creature, non con grandi proclami, ma casa per casa, di villaggio in villaggio, come faceva Lui. Significa essere vicini al popolo in tutte le sue sofferenze, in tutte le prove che deve affrontare, testimoniando con l’esempio, con i fatti, l’amore di Lui, che custodisce, solleva, incoraggia, dà la vita: questo lo si può fare soltanto con la Sua grazia». 

Nella nostra epoca – che spinge a ottimizzare energie e risorse e premia efficienza e risultati – cosa vorrebbe dire a quei cristiani che possono essere tentati di farsi sopraffare dall’ansia e dall’impazienza del raccolto?  

«A costoro dico: imparate ad aspettare, seminate con fiducia. Gesù ci assicura che i nostri capelli sono contati, siamo preziosi ai suoi occhi; Egli conosce tutto di noi, ci ama: seguiamolo con la fede viva dell’emorroissa, con la dedizione ai fratelli, soprattutto quelli più vulnerabili. La venuta di Gesù nel Santissimo Sacramento, nell’Eucaristia, è il più grande miracolo che avviene ogni giorno nel mondo: dobbiamo inginocchiarci e pregare. Egli ci ascolterà e ci guiderà: le tenebre non prevarranno, Gesù ha vinto il mondo». 

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