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“Anche se l’Isis sarà sconfitto abbiamo paura a tornare a Mosul”

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Vatican Insider - pubblicato il 09/11/16
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Smettono di lavorare per qualche minuto, hanno le mani impolverate di segatura, impiastricciate di colla e di vernice. Arrivano tutti da Mosul, l’antica Ninive, città assira citata anche nella Bibbia, caduta due anni fa nelle mani dell’Isis. Nei loro occhi c’è ancora paura, nelle loro labbra, rassegnazione. «Anche se la nostra terra venisse finalmente liberata, noi abbiamo paura, non vogliamo tornare…». Vedi i volti di Zuhair Azouz, 68 anni, e di suo figlio Ihab, 26, rifugiati iracheni in Giordania, e capisci come il Califfato di al-Baghdadi sia soltanto l’ultimo capitolo, il più tragico, di una storia iniziata molti anni fa.  

Ci troviamo al Centro Nostra Signora della Pace, alle porte di Amman, una struttura del Vicariato latino dove sorgono un istituto per bambini con gravi handicap motori o mentali e un laboratorio dove si realizzano braccia e gambe artificiali per chi li ha persi sotto le bombe. Dietro la struttura, dentro alcuni container bianchi, uomini e donne lavorano costruendo sedie e tavoli, preparando sapone biologico e cuscini decorati con scarti di stoffa. Nei container quegli uomini e quelle donne, rifugiati iracheni di fede cristiana scappati da Mosul all’arrivo dell’Isis nell’estate 2014, ci hanno vissuto. Ora, grazie all’aiuto di Caritas Giordania hanno potuto affittare delle abitazioni e le strutture d’emergenza sono state convertite in luoghi di lavoro. Zuhair Azouz faceva il meccanico, aggiustava automobili. Ihab frequentava il terzo anno di università, studiava biologia. Oggi si guadagnano da vivere costruendo mobili su ordinazione, con il sogno di raggiungere i parenti in Australia. «Non volevamo andarcene – spiegano a Vatican Insider – ma siamo stati obbligati, cacciati, abbiamo dovuto lasciare le nostre case, le nostre attività, la nostra terra. Non vogliamo tornare a Mosul. Anche se l’Isis verrà sconfitta, anche se non ci sarà più. Abbiamo paura…». Se chiedi perché, ti senti rispondere: «Dopo l’Isis qualcun altro verrà… Non abbiamo più fiducia, non crediamo di poter tornare. Anche se l’Isis se ne va – continuano all’unisono padre e figlio – ci saranno vendette, per noi la vita a Mosul è finita. In ogni periodo, dopo la guerra, c’è chi ha fatto qualcosa contro i cristiani. Prima dell’Isis c’erano altri gruppi di miliziani». I rifugiati non risparmiano critiche all’attuale governo dell’Iraq che, raccontano, usa due pesi e due misure: «L’esattore arriva e se il musulmano non può o non vuole pagare, tutto si sistema. Il cristiano invece non ha scelta». 

Sandy Hikumat Hana, 36 anni, è scappato da Mosul il 6 agosto 2014, dopo l’attentato che ha provocato migliaia di morti e dopo il rapimento di migliaia di ragazze yazide. «All’epoca di Saddam Hussein – dice – c’erano pace e buone relazioni con i cristiani. Anche allora la situazione economica andava male, c’era povertà. Ma almeno la vita sociale e la possibilità di esprimere la nostra fede era garantita. Quanto alle violenze, ci sono trenta ragazze cristiane che sono state rapite a Kirkuk, ma prima che arrivasse l’Isis». 

Questi rifugiati non intendono far ritorno in Iraq ma neanche rimanere in Giordania: «Preferiamo andar via, lontano dai Paesi arabi. Pensiamo ai nostri figli, per noi l’Europa è il futuro. Ho fatto domanda per essere accolto come rifugiato in Francia ma è andata male». Nassam Rafuca, 32 anni, un altro giovane uomo di Mosul, ricorda: «Abbiamo deciso di rimanere con Gesù, di non rinnegare la nostra fede cristiana e di lasciare la nostra città. Per questo non possiamo perdonare l’Isis».  

Al Centro Nostra Signora della Pace è in visita una delegazione del Movimento Cristiano Lavoratori, guidata dal presidente Carlo Costalli, che finanzierà un impianto fotovoltaico e un depuratore d’acqua. Ad accoglierli una religiosa siriana, suor Rudeina, che fino a due mesi fa lavorava in un ospedale in zona di guerra. La suora salesiana insieme ad altre due consorelle oggi collabora a mandare avanti l’ospedale per bambini. Negli ultimi due anni, quand’era in Siria, ha avuto tra i pazienti in corsia anche miliziani dell’Isis. Le chiediamo come si comportava con loro. «Cercavamo di curarli – risponde sorridendo – con ancora più amore degli altri».  

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