Ore 7,41 di domenica 30 ottobre. Una data di quelle che resteranno nella storia. Il terremoto – il terzo in due mesi – colpisce e abbatte Norcia, la cittadina patria di San Benedetto. La basilica non regge alle scosse e viene giù. In quel momento nel monastero benedettino c’erano solo padre Cassiano, il priore, e il giovane padre Gregorio, brasiliano. Cassiano è un uomo alto, dalla figura ascetica, aria carismatica. Sul suo mantello nero si vede la polvere dei crolli. «Siamo salvi per miracolo. Noi benedettini viviamo da due mesi nei prefabbricati, in un altro monastero fuori città, ma stamani dovevo andare a prendere delle cose. E nulla lasciava pensare che il terremoto avrebbe colpito ancora. Le pietre e le tegole venivano giù come proiettili. Ho alzato gli occhi e ho visto che la chiesa non c’era più». E trema, mentre parla. Una signora anziana gli si avvicina, lo abbraccia, piange. Anche lei ripete: «E’ un miracolo».
SACRO E PROFANO
Sembra la parola più gettonata. Miracolo. Per chi crede, è davvero un miracolo che questa antica città sia rimasta in piedi nonostante un sisma tanto devastante. Un miracolo è che non ci sia un morto o un ferito grave. Padre Cassiano accenna alla protezione di San Benedetto. Poco distante c’è un gruppo di sette clarisse, suore di clausura che i vigili del fuoco hanno portato a forza fuori dal convento. «Noi – racconta la badessa, suor Maria Gabriella, che è frastornata dal terremoto quanto dalla curiosità delle persone – non volevamo uscire. Eravamo nel chiostro aspettando la messa. Ma i vigili hanno quasi buttato giù il portone». Tutti assieme, frati e suore, hanno recitato il rosario nella piazza, prima ancora che si depositasse la polvere. Poi i due padri si sono seduti sulle sedie del bar e hanno confessato chi voleva. Dice una suora: «Io ero pronta». Sottinteso, per il paradiso.
Il racconto del terremoto delle madri clarisse è una mescolanza di sacro e profano. Suora Maria Francesca ha visto precipitare dall’alto la statua della Madonna: «Ma quella di Santa Chiara è rimasta sul piedistallo. Lei ci protegge». Ora è preoccupata che i parenti sappiano che sta bene. «Abbiamo un cellulare comunitario, ma ce lo siamo dimenticato». Interviene suor Lucia, la novizia, e parla con un vigile del fuoco: «Non siamo riuscite a portare via il nostro cane, Giobbe». Parla anche la più anziana, suor Maria Raffaella: «Ora il vescovo ci vuole mandare a Trevi. Ma noi aspettiamo delle vocazioni e vogliamo un prefabbricato. Finché c’è una persona a Norcia, noi restiamo. Fino a quando il monastero non sarà di nuovo agibile e potremo accendere la luce, per illuminare le anime, come voleva santa Chiara». Alla fine però si arrenderanno.
Sbandate, frastornate, incredule, le suore sfollate sono il simbolo della giornata più tragica per Norcia. Le scosse del 24 agosto e della settimana scorsa, in fondo, erano sembrate poca cosa. Molte stalle lesionate, 860 persone aiutate con il contributo alloggiativo, ma il peggio sembrava passato e il sindaco Nicola Alemanno aveva potuto annunciare trionfante che l’emergenza era alle spalle. Si sono smontate le tende, ci si preparava a ripartire con il turismo. Invece no. Da ieri ci sono quasi 6000 persone che vagano per le strade. L’unica soluzione è portare via la gente. Saltano fuori 1500 posti letto sul Trasimeno, arrivano pullman da tutta le parti, ma la gente non vorrebbe andarsene. Tanti sono gli arrabbiati: «Non ci hanno portato neanche il pane, meglio sarebbe chiamare l’esercito». Alla mensa di fortuna hanno preparato 150 pasti ma si sono presentati in seicento.
LA RABBIA
Intanto le scosse si susseguono. Se ne contano duecento in sei ore. Così come crollano i muri, crollano anche le certezze. Dappertutto sono litigi in famiglia, tra chi vuole scappare e chi no. Oppure si inveisce contro il sindaco che troppo presto ha fatto smontare le tende. O contro la Protezione civile che tarda a portare le famose casette. In effetti sono passati 2 mesi dal 24 agosto e le ditte (ma questa è una procedura in capo alle Regioni) neanche hanno cominciato a preparare le aree.
E mentre i primi bus portano via anziani e bimbi, c’è chi si prepara a resistere. Un allevatore, Enrico Foglietti, è esasperato: «Non ci aiuta nessuno, allora io domani faccio una gettata di cemento e mi faccio montare una casetta. Me la compro da me. E denunciatemi per abuso edilizio». Gli dà ragione un altro allevatore, Giuseppe Fausto: «La mia stalla è inagibile, ma mi hanno detto che è meglio non dichiararlo sennò devo chiudere. Preferivano dire che non c’era l’emergenza». Anna Ferretti, disperata perché ha perso la casa e tutto il resto, è in piazza e si sfoga: «La tristezza è che t’abbassano pure il terremoto».