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Cosa cerca chi cerca il contadino che cerca moglie?

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Giovanni Marcotullio - La Croce - Quotidiano - pubblicato il 28/10/16
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Che cosa fa sì che, nel XXI secolo, Il contadino cerca moglie sia un format di successo? Piacerà o no, ma che sia un successo non c’è dubbio: è alla seconda stagione in Italia ma il Belpaese si è accodato trentesimo ai ventinove che dal 2001 in qua avevano riprodotto il format. Per il bene dello show ci rallegriamo con Fremantlemedia Italia e Fox Italy che hanno sostituito l’insopportabile Simona Ventura con una conduttrice esordiente, brava quanto serve e carina quanto basta: che sia stata questione di cachet o d’immagine, la scelta non può che premiare.

Intendiamoci, stiamo comunque parlando di Tv del XXI secolo, non va confrontata con quando Gassmann leggeva Dante alla Rai (quel mondo, se non quegli uomini, non esiste più): nondimeno, come quando i cani rovistano nella pattumiera e vi trovano una mela smozzicata ma non marcia e non troppo sporca, così anche a noi sembra di avere davanti agli occhi un’idea interessante.

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E dell’idea parliamo, ché per lo spettacolo ci sarebbero diversi appunti da fare: c’è la contadina donna ed è immancabilmente arrivato “il contadino gay”. I produttori giurano di non aver cercato il sensazionalismo, di aver saputo che Sebastian (il nome del concorrente in causa) è omosessuale solo in un secondo momento: ma «semplicemente la sua forza era tale che non potevamo farne a meno». E su questo hanno ragione: il contadino gay è un uomo piacevole, delicato e perfettamente fuori dallo stereotipo. L’ideale quindi perché la conduttrice possa definire la sua “la vicenda che mi ha colpito di più”: il sodalizio tra la bella inarrivabile (perché fuori concorso) e “l’amico gay” è così stereotipato da impacchettare anche il virile Sebastian. E poi al resto pensano i registi, che gli mettono tra i pretendenti una checca persa che va a estirpare erbacce vestito da cowboy, e i tecnici del montaggio, che li mettono tutti e quattro a fare il pesto col pestello a mano e fanno dire alla sagoma del cowboy “no, guarda, io mi metto un tappo nel sedere” (verbatim). Sono peccati a cui la Tv è abituata. Che anno era quando Gianni Agus diceva a Sandra Mondaini e Raimondo Vianello che in Stasera niente di nuovo andava inserito «un personaggio, come dire, particolare, che oggi è molto di moda. […] Un attore, un artista un po’ diverso», perché «da un po’ di tempo in qua si usa, e poi piace a un certo pubblico»? E chi se lo ricorda? Ah, sì, era il 1981: io non ero neanche nato. Benedetti siano Blob e Techetechetè: che sarebbe oggi la Tv senza questi polpettoni in palinsesto! Niente, Agus aveva spiegato tutto trentacinque anni fa. Ma Gianni è morto, e pure Sandra e Raimondo sono morti – riposino in pace. Potrei arrivare al punto proprio da qui, ma avevo in mente un altro percorso, soprattutto perché la tirata sul gay-non-stereotipato-nella-cornicetta-stereotipata mi è scivolata là inavvertitamente.

Ma io non sto facendo il processo a Il contadino cerca moglie, non è affar mio: anzi, credo di non essere riuscito a nascondere una certa qual simpatia per il format. Non è un reality, anzi dei reality ha proprio l’ingrediente che più manca loro – ovvero la realtà. Non c’è niente di reale in una casa con perfetti sconosciuti chiusi dentro: un labirinto per topi è altrettanto reale, e se per qualche ricercatore la cosa può sembrare molto interessante, di certo non è cosa da appassionare un grande pubblico. Difatti i format del Grande fratello e dell’Isola dei famosi (altra epica sintesi di mille irrealtà) vengono tenuti in una similvita forzata dai produttori, che di stagione in stagione aggiungono i vip, l’ex calciatore, il travestito parlamentare a fare il conduttore “pittoresco”: non è che “il gusto del pubblico cambia”, è che quando droghi delle persone le dosi devono crescere per tenere alto l’interesse, e piano piano si perde sensibilità anche alla più forte delle provocazioni.

Il contadino cerca moglie, dicevo, non si basa strutturalmente sul voyerismo, per quanto qua e là possa indulgervi (ma queste sono scelte dei registi, non degli ideatori e degli scrittori).

Se uno guarda il Grande fratello lo fa probabilmente perché spera di intravedere quello per cui fa il tifo che si apparta con quella con cui vorrebbe appartarsi lui. Coi cosiddetti vip il meccanismo decuplica la sua forza (il che può voler dire ugualmente poco). All’Isola poi è più facile beccare qualche istante di nudo che – nella foga della “realtà” e nonostante tutto l’impegno – dalla regia non riescono proprio a censurare.

Sesso dunque, ma in contesti artefatti e irreali. Difatti le trasmissioni veleggiano per un po’ con gli ascolti, grazie al brivido del guardonismo, e poi colano a picco. Anche ne Il contadino cerca moglie si parla di sesso, anzi è uno degli argomenti principali del format, solo che l’altro è la realtà. Per questo anche persone refrattarie alla Tv dei nostri giorni possono trovarsi incollate allo schermo, e quello che mi interessa è provare a indagare il motivo di ciò.

Due sono gli argomenti del format, e il titolo li dice espressamente tutti e due: formare una coppia (o anche più di una) e scegliere uno stile di vita. La cosa riesce ad essere in qualche modo pragmatica e idealista al contempo, sentimentale e rude, spietata e romantica: ognuna delle pretendenti a ciascun contadino sa di essere in qualche modo a un concorso di bellezza, sa di avere accanto delle rivali e sa che il premio è una persona e la possibilità di impegnare la propria vita con quella persona. La quale, per complicare ulteriormente il quadretto, è anche il giudice. Una cosa a metà tra il giudizio di Paride e quello di un tronista, ma con un complemento mancante in entrambe le situazioni menzionate – sempre lei: la realtà.

Bisogna ammettere che i titoli “il metalmeccanico cerca moglie” o “il netturbino cerca moglie” non tirano come “Il contadino cerca moglie”. Come si spiega? I contadini non fanno un mestiere socialmente più utile di quello dei netturbini, né la perizia dei metalmeccanici è inferiore alla loro. L’odore del letame suino non è più gradevole di quello della spazzatura e scavare patate non è meno faticoso che rifinire bulloni. C’è la questione della natura, d’accordo: l’aria aperta, gli alberi, i prati, tutte cose di cui il cittadino avverte il fascino esotico. Ma la trasmissione (in questo ben calibrata) si premura di demolire le fantasie romantiche proprio con marce nel fango, stivali nel letame, schiena dolorante per la raccolta di frutta, e poi insetti, umidità, silenzio, assenza di fibra ottica e altri comfort comuni in città. Il genere letterario prevede lo spaesamento e il disincanto delle/dei pretendenti che vanno in campagna coi tacchi, non hanno idea di come si coltivino e raccolgano le cipolle e non si sentono “nate/i per spalare letame”. Eppure il gioco non finisce lì, e non è pensabile che a spingere i/le partecipanti sia “il titolo in sé” (come nel caso di Paride), perché qui il titolo consiste nel giudice; né che sia la straordinaria desiderabilità del premio (come nel caso del tronista), perché di begli uomini e belle donne – grazie a Dio – è pieno il mondo.

Che resta, dunque? Resta l’attrattiva di uno stile di vita incarnato in una persona, il fascino che promana da questo mix di sesso e realtà che è impossibile trovare altrove in televisione. Non ci si scandalizzi, via: tutta la storia umana è piena di contesti espressamente adibiti all’accoppiamento, quello che la promiscuità indiscriminata dell’ultimo secolo ha gradatamente aggiunto è stata l’ambiguità delle relazioni, non la loro natura esplicita.

Mi spiego: nelle culture antiche c’erano feste in cui le giovani in età da marito sfilavano davanti a giovanotti lì impalati a sorridere, a sbiancare e a farsi avanti; poi ci sono stati luoghi come le chiese, dove la segregazione permetteva a chi “varcava il limite” tra maschi e femmine di fare una dichiarazione implicita e gestuale, con la quale la ragazza riconosceva inequivocabilmente di avere un pretendente (e lo vedevano anche le famiglie e la società tutta); con il tempo delle mele invece c’è stata l’epoca delle feste da ballo in cui si può non andare in coppia, ritrovarsi a far coppia lì senza che nel buio qualcuno ne prenda nota e verosimilmente avere rapporti sessuali completi senza che ciò significhi alcunché.

Non è una predica, capiamoci: è la nostalgia di senso che innerva ogni ricerca di sesso degna di questo nome, ed è una cosa di cui la nostra epoca – impudica e puritana come forse nessuna nella storia – ha perso il contatto. Ci sembra poco poetico il racconto del primo incontro tra la Madre di Dio e suo marito, nella versione in cui ci è trasmessa dal Vangelo apocrifo della Natività di Maria, e al contempo ci commoviamo se nostra figlia ci racconta del suo primo bacio (magari datole per scommessa tra amici da un ragazzo ubriaco a una festa di classe). Questo richiederebbe allargare il discorso alle polemiche della settimana scorsa sulle miserabili esternazioni di Madonna, riprendendo le argomentazioni stringenti di Lucia Scozzoli su queste colonne; ma non è quanto mi interessa ora. Per chiudere l’argomento sesso, e per lasciarlo aperto quel che qui ci basta, basti ritenere che il mondo degli uomini non asessuati (se ve ne sono) si divide tra chi ritiene che tutta la realtà rimandi al sesso e chi ritiene che il sesso esprima e interpelli germinalmente l’intera realtà. Si vede da sé cosa resta a quelli della prima squadra (capitanata dall’inossidabile Sigmund Freud) se al rapporto “realtà-sesso” viene a mancare la realtà. Tutto, più o meno, perché anche il sesso diventa irreale. E si finisce a spiare le vite altrui, vere o finte che siano, vagheggiando la propria. Poi anche questa nostalgia si spegne. E resta la noia. Mia moglie mi raccontava con stupore che alcuni suoi alunni adolescenti le confessavano di amare la droga «anche un po’ più del sesso». In verità, questo è profondamente ragionevole.

Ma se Il contadino cerca moglie, e non ci piove, cosa cercano le/i concorrenti? Ecco, io penso che oltre l’immancabile e superficiale strato d’idealismo romantico sulla campagna (che da Toto Cutugno a Gabriele d’Annunzio è sempre lo stesso, si parva licet…), la nostalgia radicale sia un’altra, e che sia ben precisa. Queste ventenni – studentesse o professioniste per la maggior parte – sono attratte da una vita in cui si impari a vivere da una maestra atavica. E questa non è l’evanescente “natura” idolatrata «dalle magie di moda delle religioni orientali, / che da noi nascondono soltanto vuoti di pensiero», ma la più fangosa e fruttifera campagna, poetica e prosaica come una donna incinta, che dà la vita e di tutto ha bisogno. Forse non lo sanno, e se mi smentiranno farò un passo indietro, ma io credo che il fascino inconscio da loro subito (perché una che va a zappare con le zeppe non ha un fascino conscio per la campagna!) vada verso il recupero di una sapienza popolare oggi rarissima perché non più trasmessa in blocco da un paio di generazioni almeno. Come un fiume carsico, alcuni (pochi) l’hanno conservata, e diventano ora – paradossalmente – più appetibili di un tronista e di Paride messi assieme.

Questi contadini televisivi diventano come i simboli viventi di una vita strappata alla chiacchiera e riconsegnata a un lavoro forse sporco ma che pulisce tutto. Qui sta un punto delicato, su cui magari mi soffermerò un’altra volta: nel “ritorno alla natura” sta uno dei più ricorrenti desideri degli esseri umani, declinato nei vari contesti come anamnesi psichica platonica, gnosi valentiniana, dottrina del peccato originale e pelagianesimo. Nel contesto culturale più prossimo alla nostra Europa secolarizzata e istupidita, esso si è concretato nell’Émile di Jean-Jacques Rousseu, nonno del “metodo Montessori” e, più indirettamente, di molte scuole pedagogiche dei nostri giorni, tanto concentrate sul metodo quanto assenti nel merito. Ma la vera scintilla, su questo argomento che tante e tante volte avevo ripercorso fra me e me, me l’ha passata pochi giorni fa François-Xavier Bellamy in un suo libro: egli mi ha fatto comprendere che solo in un senso molto impreciso, a ben vedere tra la stupidità e l’ipocrisia, possiamo parlare oggi di “emergenza educativa”. In realtà, va tutto a meraviglia. Abbiamo le giovani generazioni più ignoranti dell’epoca moderna, sicuramente le più incolte della storia in rapporto al grado generico di alfabetizzazione, perfino le più inconsapevoli delle tecnologie recentemente sviluppate, e tutto questo non è che la ricaduta ultima (o penultima) di un lungo processo, o con le sue parole «la riuscita completa di una teoria perfettamente esplicita – quella del rifiuto assoluto della trasmissione delle conoscenze» (Les déshérités, 58).

Immagino che qualcuno mi dirà: «Aspetta, stavi parlando di contadini e di sesso, come sei finito all’Émile e alle prove Invalsi?». È vero, il nesso è sottile e può sfuggire. Solo che, sinceramente, non trovo altre spiegazioni ragionevoli al successo di un format su un concorso in cui i vincitori non prendono soldi dai produttori dello show, ma semplicemente si accasano come per decine di migliaia di anni si è fatto in milioni e milioni di case e fattorie su tutta la faccia della Terra. Di “vivere all’aria aperta” ci si stanca dopo un mese, se lo standard di vita comprende la manicure e i capelli sempre a posto come tra il Duomo di Milano e San Babila: e soprattutto, una fattoria non è “la natura” rousseauiana, non potrebbe mai esserlo, tanto è antropizzata e piena di nozioni. Una fattoria è invece un’enciclopedia in cui si imparano moltissime nozioni sulla vita e sulla morte, tramandate di generazione in generazione, e su tutte le altre si informa una visione del mondo capace di accoglierle.

In realtà, il successo de Il contadino cerca moglie è dato dalla forza di quel binomio “sesso-realtà” che alla nostra società alienata (e compensativamente ipersessualizzata) rende invise le due gambe su cui la storia degli uomini ha corso verso tutti i suoi traguardi: la famiglia e l’impresa. Nessuna scienza, nessuna arte, nessuna tecnica avrebbe mai mosso un solo passo, nella storia umana, senza questi due insostituibili sostegni. Il resto è il “gioco del se” fatto da una società annoiata, capace di teorizzare al più il “diritto all’aperitivo”. Solo che, alla faccia di Rousseau, il cuore dell’uomo, per quanto intontito e ignorante, lo sa ancora (forse lo saprà sempre) di che ha bisogno. Esso viene da una tradizione e solo di una tradizione può vivere.

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