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Il rabbino: “Mio figlio ucciso dall’Is. Ma con l’islam si vive in pace”

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Vatican Insider - pubblicato il 19/10/16
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La visita alla comunità ebraica di Tunisi comincia dalla scuola, nei locali vicini alla «Grande Sinagoga», su una strada che, per uno strano caso del destino, si chiama Rue de Palestine. Ad attenderci c’è l’insegnate di storia, un musulmano. Nell’ufficio del direttore della scuola, il rabbino della Grande Sinagoga Bato Hattab, a fare gli onori di casa c’è invece la professoressa di matematica, una giovane lettone di fede protestante, in procinto di sposare un tunisino: un melting pot affascinante che fa da perfetta introduzione all’atmosfera di tolleranza e condivisione caratteristica degli ebrei tunisini. «Siamo qui da millenni, ci sentiamo profondamente cittadini di questo Paese – sorride dietro una folta barba il rabbino Hattab – non abbiamo mai avuto problemi gravi e credo che, sebbene sia più diffuso un certo estremismo islamico dalla rivoluzione (dei Gelsomini, ndr), il clima sia migliore adesso. Sotto Ben Ali anche noi, come tutti i tunisini, vivevamo nella paura del domani. Ora ci sentiamo più liberi. Con gli islamici, qui, abbiamo da sempre un buon rapporto».  

Purtroppo non altrove. Una delle quattro persone rimaste uccise durante l’attacco al supermercato kosher di Parigi del 9 gennaio 2015 era Yoav, suo figlio 21enne. Il Rabbino si commuove mentre mostra il poster con il bel viso del ragazzo utilizzato per la commemorazione. Ma non perde la sua fiducia. «Non sono veri musulmani e credo sempre nella possibilità di convivere in pace. Quando sono stato ricevuto da Hollande ho chiesto maggiore efficienza nella sicurezza. Qui da noi, credo che le forze di polizia stiano lavorando bene». I luoghi ebraici tunisini, anche quelli non più utilizzati nel timore che possano subire atti dissacranti, sono sorvegliati 24 ore su 24 dai militari.  

Il vero problema che vive oggi questa comunità – che fino allo scoppio della II guerra mondiale contava su 350mila membri su 2 milioni di abitanti complessivi, il 18% della popolazione – è una diaspora senza soluzione di continuità. «Noi siamo qui dalla prima distruzione del “Tempio” – spiega Jacob Lellouche, intellettuale, titolare del ristorante kosher Lilie Mamy (costretto alla chiusura temporanea dal Ministero degli Interni che ha intercettato minacce di atti di violenza a opera di salafiti) e primo e unico ebreo a candidarsi nelle elezioni costituenti del 2011 (non ha ottenuto il seggio per una manciata di voti) – poi sono venuti i cristiani, Agostino, Cipriano, Tertulliano, infine gli arabi e l’islam. Eravamo la maggioranza. Ora siamo circa 1500 nel Paese (in gran parte nell’isola di Djerba, ndr) e tra i 300 e i 400 a Tunisi. Qui sono arrivati ebrei a varie ondate. Prima con i fenici, poi, dalla Palestina, a seguito della prima e la seconda distruzione del Tempio, quindi dall’Europa, a causa dell’inquisizione, poi dalla Turchia, dalla Spagna. Per secoli c’è stata un’immigrazione ebraica verso questa terra: Cartagine, per farle un esempio, è una parola che deriva dall’ebraico e significa nuova città. Poi, una serie di fattori, ha causato un esodo costante».  

Il primo è stato la creazione dello Stato di Israele che ha innescato fratture in tutti il mondo arabo e favorito da una parte timori, dall’altra l’occasione di andare nella «Terra Promessa», «non sempre spontaneamente – precisa Lellouche – qui e nel Maghreb gli ebrei più poveri sono stati spinti ad andarsene dalle autorità politiche quasi per liberarsi di pesi».  

Poi c’è stata l’indipendenza dalla Francia che ha diffuso tra gli ebrei tunisini il dubbio che non avrebbero goduto di stessi diritti. Infine la «Guerra dei 6 giorni» che ha scatenato sospetti e grandi frizioni tra arabi e comunità ebraiche presenti in tutte le società a maggioranza islamica. A Tunisi venne bruciata la grande sinagoga e in tutto il Paese ci furono incidenti. «Ma Bourghiba (primo presidente dopo l’indipendenza e padre della patria, ndr) fece un discorso storico in cui minacciava ritorsioni a chi avesse osato a torcere un solo capello di un fratello ebreo». A tutti questi motivi, attinenti in gran parte alla sfera etnico-religiosa, va aggiunta la crisi economica in cui il Paese versa ormai da lungo tempo che, così come in tutti gli altri settori della società, specie tra i giovani ha favorito l’emigrazione. 

Nel 2013 Lellouche, assieme ad altri membri della comunità, ha inaugurato il primo museo ebraico di Tunisia nelle stanze soprastanti il suo ristorante. Ora, proprio come il suo locale, il museo è chiuso e gli oggetti – alcuni millenari – sono conservati nella bella casa nel sobborgo di La Marsa. Ma i rigurgiti salafiti o wahabiti non sembrano impaurirlo più di tanto. «Sono un personaggio pubblico e voglio restarlo. Se c’è qualcosa che fa paura nella nostra società, fa paura a tutti i tunisini. I salafiti, gli estremisti islamici, assomigliano più alle vostre “Brigate Rosse” che a fanatici religiosi: giovani che vogliono portare l’attacco alla società e utilizzano l’islam, o fette di popolazione povera che si rivolge a Daesh per guadagnare. Cosa c’entra la fede?». In attesa che passi questa fase di transizione e la giovanissima democrazia, cui la comunità ebraica guarda con interesse, si stabilizzi, il Rabbino della Grande Sinagoga di Tunisi e Jacob Lellouche lanciano un messaggio di fiducia: «Dobbiamo condividere con maggiore apertura di spirito gli eventi e apprendere a tendere la mano agli altri, insegnando ai giovani a chiedere aiuto alla generazione precedente».  

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