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Per i cristiani non è importante essere “energumeni perfetti, ma appoggiarsi a Dio”

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Vatican Insider - pubblicato il 18/10/16
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Ho sottolineato in precedenti interventi che Gesù nei Vangeli evidenzia molto, dell’amore verso gli altri, il farsi prossimo. Il termine greco prossimo, usato nel testo originale, significa anche vicino, amico, familiare, intimo. Si tratta, come in quegli articoli osservavo, di una tendenza a farsi concretamente, non spiritualisticamente, vicino a ogni persona, amandola come noi stessi. L’amore di Dio e dei fratelli può essere solo un dono della grazia. E si tratta di un cammino graduale il cui passo è dettato dal Signore e anche dalla nostra risposta. Da un lato dunque vi è un Dio di totale misericordia, dall’altro, qui sulla terra, la nostra vita la costruiamo più o meno profondamente anche col nostro cercare di corrispondere in tutto o in parte non a un’astratta, schematica, morale ma alla grazia di Cristo realmente via via ricevuta in dono. Dunque non possiamo giudicare nessuno, perché non possiamo sapere pienamente che dono di grazia ha ricevuto una persona. E non possiamo nemmeno sapere pienamente quanto una persona ha cercato o meno di corrispondere. Ancora, Dio non è un distributore meccanico di grazia in base alle concrete risposte ricevute. Dio ama di un amore infinito e sapiente, che non si può racchiudere in calcoletti. Il punto però che qui vorrei evidenziare è la nostra risposta. Gesù nel Vangelo sottolinea quasi con pignoleria l’amare Dio con ogni aspetto della persona umana, del suo cuore: anima, mente, corporalità. E con altrettanta intensità Gesù sottolinea il tendenziale farsi, discretamente, vicini, intimi, familiari, a ogni persona come a sé stessi.  

La nostra risposta dunque, crescendo, si fa sempre più fiduciosa, per grazia, nell’amore senza condizioni di Dio; sempre più attenta, desiderosa, di attingere alle fonti della grazia (per esempio Parola, sacramenti, comunità di crescita, preghiera, comunione, padre spirituale, carità, missione); sempre più tendente ad amare, con discrezione, ogni persona da vicino, per poter partecipare della sua vita come se fosse la nostra. Dunque anche circa la nostra risposta il primo punto non è l’essere il più possibile energumeni tutti perfetti ma l’appoggiarci a Dio. Lo vediamo in tanti passi significativi dei Vangeli. «Gli dissero allora: “Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?”. Gesù rispose: “Questa è l’opera di Dio (più e prima che della persona umana, ndr): credere in colui che egli ha mandato» (Gv 6, 28-29). «Voi dunque intendete la parabola del seminatore: tutte le volte che uno ascolta la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada» (Mt 13, 18-19): la prima cosa, almeno nel senso della più grande decisività, che il maligno tenta per rubarci la vita non è il tentarci in un qualche peccato che vorrebbe farci commettere ma il toglierci Dio. «In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto» (Lc 10, 21). Nel testo originale, in greco, si può intravedere un tenere «queste cose» lontane dai dotti e dai sapienti e un togliere il velo da esse per i piccoli. Dunque non puntare su noi stessi ma su Dio. Questa è la nostra pace, la nostra speranza, la nostra forza. 

Ma all’interno di questa ottica vi è un contributo più o meno intenso che possiamo profondere, rendendo in tanti casi più facile il venire di sempre nuova grazia e in ogni caso la grazia stessa ci orienta gradualmente ad amare Dio con tutto noi stessi e a farci prossimi, come ci occupassimo di noi stessi, dei nostri fratelli.  

Il punto al quale oggi volevo arrivare è proprio questo. Anzi, avendo già più volte fatto riferimento all’aspetto del rapporto con Dio, sul quale tra l’altro tornerò anche in altri interventi, vorrei soffermarmi qui sul punto dell’amore per i fratelli. La luce è un dono dall’alto che, tra l’altro, orienta sempre più profondamente, se accolta, ad amare i fratelli con ogni discreta attenzione. Così un aspetto di questo amore fraterno è, gradualmente, quello, con discrezione, di cercare tendenzialmente, nella volontà di Dio, di comprendere sempre meglio ogni aspetto della vita dell’altro, di poter partecipare da dentro di tutta la sua vita, gioire e soffrire con lui, di aiutarlo a viverla e a realizzarla in ogni sua cosa come se fosse la nostra. Certo desiderare di amare sempre più profondamente, così, ogni persona, è un cammino graduale. Come detto prima l’importante è essere piccoli tra le braccia di Dio e, in un graduale cammino, cercare, sotto vari aspetti, di non fare di meno ma neanche di più di quello che Dio ci propone. Certo non di più di quello che la sua grazia ci dà di vivere. In questa ottica serena, comunque, vi può essere molto da riflettere, per esempio per le guide. Ci si può in varia misura accontentare di aver fatto qualcosa che a noi pare di bene per gli altri. Io guida posso terminare la mia giornata pensando di aver fatto tanto bene senza in varia misura preoccuparmi della vita reale degli altri. Posso vivere in un mondo in varia misura tutto mio, pieno di schemi, di autogratificazioni, ma di sforzarmi di capire veramente l’altro, la sua situazione reale, i suoi dolori, le sue speranze, i suoi possibili bisogni, etc.. può in varia misura nemmeno sfiorarmi l’idea. Con un desiderio sincero di vicinanza come potrei per esempio, almeno sotto certi aspetti, desiderare di essere pastore di una diocesi grande, non a misura d’uomo? Fa riflettere vedere come in un dialogo, in una confessione, il sacerdote può sentire poco la necessità, con discrezione, di comprendere, di ascoltare, profondamente l’altro, tutta la sua vita. Certo ogni prete può avere il suo carisma ma l’amore orienta tendenzialmente a una vicinanza sempre più profonda. Fa riflettere come un vescovo si potrebbe accontentare di una fugace visita pastorale senza sentire il profondo bisogno di ben altra vicinanza alle sue pecorelle. Può far sorgere domande la risposta che il vescovo non deve essere l’unico protagonista perché si tratta sempre di un lavoro di squadra. Ma anche il parroco non può, talora, seguire da vicinissimo tutti i fedeli della sua parrocchia ma certo può con discrezione partecipare attentamente di tante cose. La grazia di questa, con discrezione, sempre più profonda, dettagliata, vicinanza è un aspetto decisivo di una possibile rivoluzione senza fine. Si tratta di una strada dalla quale anche un vescovo può talora essere in tante cose lontano mille miglia. Contento nel suo palazzo, senza avvedersi di vivere in un mondo tutto suo, in tante cose fatto di apparenze, di gratificazioni in tante cose esteriori mentre la vita reale vive, ama, soffre, da un’altra parte, della quale lui può essere largamente ignaro. Ma se così vive il pastore non si può perdere già alla fonte la linfa di tanta vita per tutti i fedeli di quella diocesi?  

Come scoprire dunque, per grazia, sempre più ogni cosa senza venire sempre più concretamente, profondamente, portati dentro il mistero di Dio, dell’uomo, del mondo, in Cristo, Dio e uomo? La distrazione, la disattenzione, la facilità con cui ci si può accorgere ben poco dell’altro possono, se si comincia a scoprirle, far riflettere e così far crescere all’infinito.  

Non mi suscitano possibili perplessità solo spiritualismo, razionalismo, legalismo. Mi mette in guardia, talora, anche l’invito a pensare. Certo già un anno e mezzo di possibili riflessioni (frutto di decenni di cammino) qui su Vatican Insider, con tante possibili piste innovative, mostrano che è bene anche secondo me cercare di comprendere sempre più la vita. Ma più volte ho ripetuto che tutte queste possibili scoperte non sono nate da un cercare a tavolino belle trovate ma sono emerse da una vita vissuta. La stessa logica e persino, per esempio, la matematica possono venire sempre più profondamente comprese solo in una sempre più profonda ed equilibrata maturazione spirituale e umana in Cristo, Dio e uomo. Quando ero in seminario qualcuno mi disse che era bene valutare anche come sacerdote la possibilità di intraprendere la via dell’insegnamento universitario. Io risposi che volevo vivere, fare, il prete tra la gente non solo per amore della gente ma perché percepivo che, almeno nella mia vita, sarei maturato, avrei imparato in profondità, molto più in mezzo alla gente che a tavolino. Cercando, per grazia, di amare sempre più con tutto il cuore, con ogni discreta attenzione spirituale e umana, le persone e sempre più, per grazia, cercando di accogliere con tutto il cuore, con ogni discreta attenzione, il loro amore, la loro vita. E certamente tutto ciò, con ogni attenzione, in Dio. Certo avrei continuato a studiare tutta la vita. Anche altre parole come per esempio «intellettuale» mi mettono in guardia. Mi trovo a concordare naturalmente con la, secondo me, sana diffidenza di san Francesco verso l’intellettualismo. Non che un intellettuale non possa aiutare tanto, ma nell’intellettualismo vi è il rischio di prendere vie riduttive, in mille modi spegnenti, anche più facilmente distorcenti. «La scienza gonfia, la carità costruisce la casa», avvisa san Paolo (1 Cor 8, 2). Forse sarebbe bene non parlare più di intellettuali perché può sapere di razionalismo. Si potrebbe magari parlare di uomini di cultura, intendendo una cultura tendenzialmente profonda, vissuta, non a tavolino. Una cultura che aiuta, stimola, a entrare nella vita, non a pensare di entrarci in realtà in varia misura uscendone. Fino, per esempio, alla varia lobotomizzazione della cultura senza il libero, tendenzialmente vissuto, sviluppo delle identità e dello scambio tra di esse della scuola. 

Qualcuno può osservare che la città si espande ma resta una. È vero vi è, per esempio, una storia di una città ma vi è anche per esempio la storia di una nazione, di un territorio, certe diocesi probabilmente già si confondono quasi l’una nell’altra. In tanti campi e forse anche nella Chiesa si può in vario modo vivere il senso di una ineluttabilità della storia, della tecnica, etc., che può finire per non distinguere con sempre maggiore attenzione i vari aspetti, tra i quali quelli spirituali, umani, culturali, di queste evoluzioni. Forse vi può essere tanto da riflettere. Non può far tra l’altro riflettere che un vescovo in tale odierna situazione può finire per divenire umanamente desideroso di passare a una diocesi ancora più grande senza venire magari poi tanto sfiorato dal problema di poter avere sempre più a che fare con numeri, schede traforate, fantasmi? Non può essere questo della distanza, della distrazione, un mare magnum nel quale possono molto più facilmente proliferare esteriorità, burocratismi, mille piccole e grandi chiusure di cuore, mentalità fasulle, che niente può aiutare a mettere in discussione? La società della distanza, dell’immagine, della burocrazia, dell’individuo, della spersonalizzazione, può penetrare profondamente nella vita di ogni uomo. La distanza può orientare alla distrazione e la distrazione alla distanza. La parabola del buon samaritano (Lc 10, 29-37) tratta anche di ciò. Si può innescare sempre più un circolo vizioso che può anche apparire invece cosa naturale, ineluttabile. Invece il samaritano cambia il suo programma. L’andamento apparentemente naturale invece non lo è. Lo è, torna ad esserlo, il suo, sotto certi aspetti, contrario. Non dipende tutto dal vescovo, qualcuno può osservare. Ma qui si tratta anche, con lui, della diversa vita della comunità cristiana, del territorio. E tra l’altro, se qualcosa si può fare per esempio in parrocchia, strade innovative, più attente, possono incontrare mille tipi di difficoltà in una tale situazione. Un pastore può pensare di capire, di conoscere a sufficienza senza mai poter venire smentito dalla realtà vissuta da vicino, concretamente. In una diocesi grande gli stretti collaboratori del vescovo si trovano sostanzialmente nella sua stessa situazione e in più nel possibile «palazzo» i rapporti tra vescovo e ausiliari potrebbero non essere come, tendenzialmente, quelli tra parroco e viceparroci. In tale situazione può accadere che vescovo e ausiliari si confermino a vicenda in visioni riduttive, variamente poco aderenti alla realtà.  

Qualcuno potrebbe osservare che rimpicciolendo le diocesi si moltiplicherebbero le burocrazie. Ma forse invece le cose si potrebbero molto semplificare proprio per le più ridotte, semplici, umane, dimensioni. Lasciando evidentemente, come intendevo in precedenti interventi, alcune questioni necessariamente, in una grande città, comuni a una supervisione collegiale. Ripeto che si tratta di piste tutte eventualmente da approfondire molto di più, anche comunitariamente. Un punto che mi pare decisivo è, come dicevo, che si può pensare di capire, di conoscere, a sufficienza senza rendersi conto di tante astrazioni, schemi, superficialità. Pensiamo, per esempio, a padre Pio. Tanto amato dai suoi fedeli e così talora poco compreso, forse, dal «palazzo». E questo benché fosse un caso eclatante. Non sono in grado di effettuare una valutazione approfondita di tale vicenda ma mi domando se una vicinanza concreta avrebbe potuto aiutare in tanti modi a gestirla meglio, senza nulla togliere alla prudenza. Penso anche, per porre un altro esempio, ai profeti nascosti nelle pieghe della storia. Come accorgersi, intuire, a distanza, con qualche fugace chiacchierata, cose nuove e pure efficacissime che come tali possono necessitare, per esempio, di tanta ravvicinata, sul campo, condivisione per poter cominciare a venire sperimentate, comprese? Ma la stessa cosa vale per la vita di ogni persona, comunità. Non si può dare, insomma, il rischio di essere parecchio distratti? Non è la vicinanza una via perché ci si avveda gradualmente di tanta possibile superficialità? Qualche pastore non avvertendo la serietà del problema potrebbe ritenere per esempio che, nei casi umanamente necessari, basterebbe che le guide diocesane maturassero nell’attenzione. Anche perché come squadra, consiglio episcopale, possono di per sé cavarsela. A me questo pare appunto un possibile segno di scarsa consapevolezza. Forse, sul campo, tanti semplici preti e fedeli vorrebbero più concreta vicinanza. Anche più familiarità, più partecipazione a misura d’uomo. E sarebbero ben contenti di tanti nuovi orizzonti, di crescita, operativi, etc., che in questa direzione si potrebbero gradualmente sviluppare a tutto campo, anche socialmente, in una diocesi a misura d’uomo. Dunque una domanda per il pastore ma anche, sotto altri aspetti, per ogni persona, potrebbe essere: intuisco e quanto che da vicino (e sempre più, con discrezione, vicino) vivrei, vedrei, vivremmo, vedremmo, tante cose in modo sempre nuovo, diverso, anche rovesciato, rispetto alla visione dal mio, dal nostro, tavolino?  

Ripeto, come ho osservato in precedenti interventi, che, nel caso, vanno valutati con attenzione i possibili pro e contro di un eventuale rimpicciolimento delle diocesi. Ma ripeto anche che si può trattare comunque di spunti che aiutano una rinnovata riflessione. Non fa comunque riflettere che Francesco ha eletto cardinali da diocesi mi pare inusuali, piccole? Forse si possono aprire piste di riflessione e magari in varia misura anche strade concrete che mostrano sotto nuove ottiche il problema della collegialità, del primato, della sinodalità ma anche, come osservato in precedenti interventi, molte altre questioni. 

In piccole, a misura d’uomo, diocesi tutto può essere più vicino, partecipato. Così, per esempio, forse un cristiano può in mille modi venire aiutato a vivere in modo nuovo ogni aspetto della sua vita, a cominciare dalla famiglia e dal lavoro. Magari sentendosi dunque variamente inserito in varie piccole diocesi, forse anche in diverse parrocchie. Invece di una forse maggiore varia dispersione nel quotidiano di tante città. Forse tanto vi può essere almeno da, vissutamente, riflettere, dialogare. 

Questioni non solo religiose ed ecclesiali ma anche sociali, politiche, economiche, culturali, etc.. Per esempio può fare molto riflettere come le varie posizioni sul prossimo referendum in Italia finiscano spesso per attestarsi su una democrazia compresa con ragionamenti a tavolino, che non cerchi, per esempio, con attenzione, le vie per la sempre più profonda, personale, comunitaria, intercomunitaria, etc., maturazione, partecipazione, delle persone, etc.. Ancora una volta distanza dall’uomo vivo, reale, schemi, apparenze, riduttivismi, distorsioni, burocrazia, etc.. Non può finire per essere tutto in varia misura, spesso in modo variamente inconsapevole, collegato? 

Il tecnicismo, già quello clericale del sacerdote e del levita nella parabola del buon samaritano, porta un senso di ineluttabilità, ineluttabilità che già è distanza, indifferenza, individualismo, distrazione. Come si può osservare in questo articolo tante impossibilità di rinnovamenti magari decisivi nella Chiesa, nella società, potrebbero forse essere più nella mente di qualche varia, ecclesiale e civile, guida che nella natura reale delle cose. Come dicevo già solo riflettere con attenzione su possibili decisive vie di rinnovamento potrebbe aprire comunque orizzonti nuovi. Ma l’ineluttabilità del tecnicismo, la distanza, la distrazione, la conseguente beata inconsapevolezza di tutto ciò, possono giungere a spegnere tanti possibili aneliti di rinnovamento anche sul nascere. Figuriamoci poi quando entrassero in ballo male intesi interessi.  

È vero, senza la grazia l’attenzione spirituale e umana sempre più profonda magari nemmeno si può sapere cosa sia. Però si può, per esempio, fin dal seminario insegnare a vivere, in un cammino graduale, a misura, per grazia, un amore vicino, che cerca di comprendere l’altro nella sua vita reale, di fargli arrivare, sentire, un bene autentico, di cuore, che partecipa della sua vita. E poi su questa graduale strada l’amore si può fare, per grazia, sempre più attento, profondo, capace di discernere. Chiaro che ogni cristiano, ogni uomo, ogni pastore, può sempre più amare, in Cristo, il mondo intero. Ma questo può forse venire sempre più profondamente, in mille modi (come appunto il possibile esempio del rimpicciolimento delle diocesi), letto nella tensione, nella volontà di Dio, a una discreta vicinanza concreta e non come motivo per un amore distratto, distante, anche rispetto ai più concretamente vicini. 

Chi, per grazia, desidera entrare sempre più nel mistero dell’amore può sempre più intuire il fascino di un’avventura meravigliosa, sempre più piena di vita. 

Dunque la regola senza il cuore, senza l’amore, il tecnicismo, può spingere all’esteriorità, al giudizio, al correggere pedantemente gli altri, alla chiusura in sé stessi, alla fazione, allo schema, allo spiritualismo, al formalismo, alla distrazione, a una varia distanza. La regola senza cuore può orientare all’ineluttabilità. Può tra l’altro far riflettere che la regola senza cuore può sotto alcuni aspetti condurre a certe, forse, visuali dell’antica tragedia greca dove l’errore, il limite, involontario era ugualmente una colpa.  

L’amore di cuore orienta alla vicinanza, alla familiarità, alla compassione, all’ascolto, al dialogo, alla serena accoglienza, alla comunione, all’attenzione, all’imparare dall’altro, alla comprensione, al non giudizio, alla semplicità. L’amore di cuore può condurre al fermarsi e cambiare direzione, all’aiuto anche reciproco a fermarsi e cambiare direzione. Come vediamo tante volte nei Vangeli (cfr Lc 7, 11-17). La possibile sempre più profonda attenzione della Chiesa in questo senso potrebbe rivelarsi una pista decisiva a tutto campo nella vita dei cristiani e anche del mondo. Dunque il sempre più profondo uscire dalla regola meccanica per entrare nella libertà dello Spirito può molto aiutare in questa direzione. 

Senza una più profonda grazia l’uomo può percepire il bene come una regola a cui si deve sottostare. E già l’accettazione di questa pur meccanica regola può essere un germinale dono dello Spirito. Non si può giudicare nemmeno l’uomo delle regole. Nei periodi di maturazione della Chiesa verso l’amore di cuore gli uomini, in varia misura, delle regole, in genere qualche guida, qualche intellettuale, possono per qualche verso patire scandalo. Lo stesso scandalo dei farisei dei Vangeli. Non vi è la gioia di una più profonda scoperta dell’amore ma lo scandalo di una meccanica regola superata. Poi la nuova situazione si assesta, si stabilizza, diventa una nuova consuetudine, in qualche modo per gli uomini delle regole una nuova regola, e si riforma, anche con nuovi uomini delle regole, una tranquillità generale. L’uomo delle regole si sente sicuro, dunque, in una regola purchessia (appunto variamente senza cuore), si assicura con essa uno stato, un ruolo, un’apparente autorevolezza religiosa, stigmatizzata di continuo nell’Antico Testamento dai profeti e ancor più profondamente nel Nuovo Testamento da Gesù, dagli Apostoli compreso san Paolo, dagli Evangelisti, etc.. Chiaro che nei momenti, nella Chiesa, di passaggio quest’autorevolezza viene messa in discussione e l’uomo delle regole può assumere il ruolo di difensore del sacro, anche cercando di confondere lo Spirito che conduce alla verità tutta intera (cfr Gv 16, 13) con il vario modernismo. Certo che qualcuno si potrà lasciare irretire dai suoi ammonimenti. Mentre la stragrande maggioranza della gente si sente aiutata da un amore pieno di umanità come quello del Gesù dei Vangeli nel rapporto con la specifica persona e il suo cammino. E anche tra quelli che restano turbati dal difensore del sacro la maggioranza appena ha l’occasione di un dialogo esplicatore, che prima non aveva avuto, subito si ritrova nella via dell’amore. 

Gesù nei Vangeli vive e ci rivela il suo amore, le vie del suo amore, non regole astratte (cfr Mt 23). E san Paolo afferma: «La nostra capacità viene da Dio, che ci ha resi ministri adatti di una Nuova Alleanza, non della lettera ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito dà vita» (2 Cor 3, 5-6). 

La varia distrazione, distanza, può avere mille conseguenze in ogni aspetto della vita. È possibile che, per esempio, un pastore in profonda conversione non abbia sete di cercare di riconoscere e di conoscere i profeti da vicino? Senza la grazia è possibile. Gesù parla anche di possibili chiusure volontarie. La brava guida, ma non a sua volta profeta, che ha per esempio il compito di dedicarsi alla cultura può accadere che parlerà con le persone conosciute, famose, affermando di non avere tempo per altro in questo mare magnum di gente e di informazioni. Il profeta cerca di vivere, per grazia, sentinella della profezia e dei profeti ovunque e in qualunque modo, situazione, si possano trovare. Consapevole che facilmente si può trattare di situazioni marginali, in mille modi nascoste nelle pieghe della storia. Non è, in qualche sfumatura, così anche per papa Francesco, venuto quasi dalla fine del mondo? «La regina del sud sorgerà nel giudizio insieme con gli uomini di questa generazione e li condannerà; perché essa venne dalle estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone. Ed ecco, ben più di Salomone c’è qui» (Lc 11, 31). 

«Carissimi, non prestate fede a ogni ispirazione, ma mettete alla prova le ispirazioni, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono comparsi nel mondo. Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo. Voi siete da Dio, figlioli, e avete vinto questi falsi profeti, perché colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo. Costoro sono del mondo, perciò insegnano cose del mondo e il mondo li ascolta. Noi siamo da Dio. Chi conosce Dio ascolta noi (sul Dio incarnato, ndr); chi non è da Dio non ci ascolta. Da ciò noi distinguiamo lo spirito della verità e lo spirito dell’errore. 

Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati. 

Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi. Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito. E noi stessi abbiamo veduto e attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo. Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio. Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui. 

Per questo l’amore ha raggiunto in noi la sua perfezione, perché abbiamo fiducia nel giorno del giudizio; perché come è lui, così siamo anche noi, in questo mondo. Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore. 

Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo. Se uno dicesse: “Io amo Dio”, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello» (1 Gv 4, 1-21). 

Una Chiesa tendenzialmente piccola, povera, vicina, compassionevole, serena, gioiosa, che aiuta, stimola, a rendere tutti vicini. Una Chiesa vicina, che, insieme, cerca le possibili vie reali, personalissime, comunitarie, etc., dell’accoglienza, della condivisione, della crescita, le possibili risposte reali ai problemi anche umani, personali, comunitari, intercomunitari, sociali, fino a quelli del mondo. Un cuore di carne (cfr Ez 36, 26) che può rinnovare la storia. Chiedete, chiedete, direi con un sorriso, della ecclesiologia, etc., alla gente, al corpo mistico di Cristo, non solo negli eventuali palazzi. La Parola, i sacramenti, l’eucaristia, sono proprio segni del desiderio di Cristo di condividere da vicino, da dentro, la vita con noi. E Cristo ci conduce gradualmente a divenire sempre più, in lui, uomini eucaristici, vicini e piccoli segni della sua vicinanza concreta, divina e anche umana. 

In questa direzione si può forse, è una domanda, ritenere che nel corpo mistico di Cristo stia, nel suo (di Gesù) cuore, ogni persona. Forse rifiuta, in profondo, di sentirsene parte chi oppone tale decisione in modo definitivo. Ma se è così allora si può forse vedere per esempio l’ecumenismo in un modo, con tante sfumature, rinnovato. 

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