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Un metodo per gestire la sofferenza e non aver paura di guardarsi dentro

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don Fabrizio Centofanti - pubblicato il 14/10/16
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Il punto più difficile della nostra crescita è fare i conti con la sofferenza sperimentata nel passato. Le esperienze dolorose riemergono solo nel silenzio, in un contatto personale con Gesù, poiché sono in genere occultate da meccanismi di difesa che impediscono di vivere aperti alla realtà, tarpando le ali, frenando le energie, vietandoci di gustare il dono di una vita autentica.

Davanti al Volto di Cristo, nell’incontro profondo con la nostra identità, emergono episodi che abbiamo rimosso e che hanno prodotto effetti inconsci, rendendoci vittime di una tristezza apparentemente immotivata. È come se un veleno s’insinuasse nel sangue a nostra insaputa, impedendoci di prendere le contromisure più adeguate per neutralizzarlo.

Molte persone vivono così: avvelenate dalle sostanze tossiche del proprio passato non riconosciuto, e quindi non elaborato.

Che fare? Il metodo è sempre lo stesso: nella meditazione-preghiera silenziosa, davanti a un’immagine del Cristo, lasciamo emergere le esperienze dolorose, mettiamole a contatto con lo Spirito Santo, permettiamo che trasmetta loro un senso nuovo, una diversa prospettiva, nella quale “sentiamo” noi stessi e chi ci ha ferito sotto l’aspetto della tenerezza e del perdono. Constatando che il Signore si serve anche dei problemi per condurci dove vuole, per farci “scivolare” nella sua dimensione d’amore, arriveremo ad accettare il passato, anzi, a farne un punto di forza della nostra identità.

Avremo così integrato l’”ombra”, operazione che per Jung è il principio della vera guarigione. Non avremo più paura di guardarci dentro, di ascoltare il cuore, che sarà l’alleato della nostra fede.

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