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Il Barolo nasce per fede e carità di Juliette Colbert

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Silvia Lucchetti - Aleteia - pubblicato il 14/10/16
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La storia della marchesa dei poveri e dei carcerati Moreno Giannattanasio racconta nel libro “Giulia. La bellezza, l’amore e il vino della marchesa di Barolo” (San Paolo edizioni) la storia di Juliette Colbert, giovane vandeana colta e raffinata appartenente a una nobile famiglia colpita dalla violenza della Rivoluzione francese. Nel 1804 Giulia incontra l’uomo della sua vita che diventerà due anni dopo suo marito: Carlo Tancredi Falletti, ultimo discendente di una delle più ricche e antiche famiglie piemontesi, figlio del marchese di Barolo. Poco più grande di lei, il marchese è ciambellano di corte dalle idee illuministe. Con il benestare di Napoleone i due giovani si sposano e si trasferiscono a Torino, dove Tancredi si dedica al lavoro, alla politica e alla vita cittadina, fino a diventare sindaco, mentre la bella e intelligente Giulia comincia a prendersi cura dei poveri e degli ultimi.

Una delle prime scene che apre il libro è il loro incontro a Parigi nel parco reale, Giulia è accompagnata della sua dama di compagnia. Un breve scambio di battute tra i due, che restano immediatamente affascinati l’uno dall’altra, sugella l’inizio del loro amore. L’uomo è colpito profondamente dalla bellezza della giovane dai capelli neri: sguardi, sospiri e qualche parola, Tancredi si congeda sussurrando:
«La bellezza non rende felice colui che la possiede, ma colui che la brama».

Il loro matrimonio combinato è in realtà un connubio perfetto tra due anime affini che si ameranno e rispetteranno per tutta la vita, superando insieme la grande prova di non poter avere figli.

Particolarmente emozionanti sono le pagine che raccontano il giorno delle nozze, soprattutto una scena che rivela già molto della personalità generosa e devota di Giulia, che prima di avvicinarsi all’altare scorge tra il popolo una bambina…

«A metà strada si fermò per sacrificare proprio la passiflora che prima l’aveva colpita. Tutto senza mai distogliere gli occhi da quelli della bambina. – Per te. È quasi bella come i tuoi occhi, – disse Juliette, offrendo quell’inedito regalo. – Grazie, madame, – rispose la piccola con un filo di voce, accennando un inchino a testa bassa e lasciando che un ciuffo di capelli le sfuggisse sulla fronte ribelle. (…) La bimba non si muoveva. Juliette si piegò sulle gambe. Reggendo la seta dello strascico nuziale con una mano, allungò il suo dono con l’altra. La piccola in un unico gesto afferrò la passiflora, la portò subito al naso, poi sentì scivolarle tra le dita alcune monete. – Fanne buon uso, il denaro è utile solo a fare buone cose, – le disse Giulia sottovoce. Allora la bimbetta chiuse il pugno intorno a quell’inaspettato tesoro e girò lo sguardo a cercare gli occhi di sua madre, pochi metri più in là. (…) – Che Dio ti protegga, – augurò Giulia, lasciando il suo sorriso a inseguire la piccola».

«IL DENARO È UTILE SOLO A FARE BUONE COSE»

A Torino Giulia e il marito impiegano tutte le loro forze e le loro finanze per “fare cose buone”. Sono moltissimi i progetti che la coppia studia e porta avanti a sostegno dei più bisognosi, per le necessità dei poveri della città. Giulia è una padrona di casa eccellente, colta e raffinata; insieme al marito intrattiene rapporti con le personalità più illustri di Torino: Silvio Pellico (che poi diviene segretario della famiglia), il conte di Cavour, amico di infanzia di Giulia, Vittorio Alfieri. Ma sono soprattutto i poveri, gli orfani e i carcerati ad interessare la vita di Giulia. È lei stessa a servire i pasti nella mensa che decidono di allestire con il marito nell’androne del loro palazzo nobiliare. Mentre Carlo Tancredi si concentra sulla sanità e l’istruzione, Giulia si avvicina alla donne carcerate, comincia a prendersene cura, insegnando loro a leggere, scrivere, pregare.

LA PRIMA VISITA ALLE CARCERI

«– Non voglio la comunione, voglio un piatto di minestra! Da dietro una feritoia nel muro delle carceri torinesi, una voce spezzò l’incantesimo della processione di Sant’Agostino nell’ottava di Pasqua che trascorreva, come di tradizione, per le vie di una città dove la primavera lottava con gli ultimi venti freddi che scendevano dalle Alpi. Giulia stava in ginocchio davanti al passaggio del corteo. – Chi è che grida e offende questo sacro passaggio! – esclamò, stringendo le labbra in una smorfia di disapprovazione. – Maledetti! – aggiunse ancora quella voce. – È veramente troppo! – fece Giulia, alzandosi in piedi».

La giovane comprende che il grido infamante proviene dalle celle del carcere e decide di avventurarsi per scoprire chi ha pronunciato quelle parole. Lo spettacolo che le si apre davanti è terribile: sporcizia, fetore, uomini malati e abbandonati in mezzo agli escrementi, rabbiosi e violenti, simili alle bestie. La voglia di fuggire è tanta ma la coraggiosa Giulia non indietreggia, chiede a Dio l’aiuto per poter continuare la sua visita e così si reca anche alle celle femminili. Lì lo scenario è ancora più tragico: le donne che incontra hanno perso ogni segno di femminilità.

«Le donne, se davvero qualcuno poteva ancora considerarle tali, erano mezze nude, ammassate dentro uno stanzone vuoto, fatta eccezione per alcuni miseri cumuli di paglia, rozzi giacigli. Il soffitto era irraggiungibile, almeno quattro o cinque metri. Le uniche finestre si aprivano in cima al tetto, utili solo a far entrare il gelo e la pioggia d’inverno e l’afa in estate. L’aria era inevitabilmente gravida di umidità, satura degli odori nauseanti delle poveracce. C’era anche una strana nota dolciastra, come una melassa mescolata al rancido della pelle sporca di quelle sventurate».

L’impavida marchesa sente nel suo cuore l’obbligo di fare qualcosa per aiutarle e così, con un programma preciso e sorretta dal marito, comincia ad occuparsi di loro, perché “non basta la punizione ma bisogna insegnare a fare il bene”. Attraverso i salmi insegna alle recluse a leggere, ottiene dal re l’incarico di sovraintendente alle carceri per migliorarle e renderle più salubri. Sempre sostenuta dalla fede e in totale comunione con il marito, Giulia continua a sognare un futuro migliore per i più disperati, per i bambini orfani e poveri.

«NESSUN FIGLIO, ALLORA TUTTI FIGLI»

«Spesso il volere di Dio rimane nascosto ai comuni occhi mortali e molti si affidano a un inutile lancio di dadi, per comprendere la sorte. Non fu così per i coniugi Barolo, che rimasero ancorati alla fede, anche quando il cielo stabilì che i figli non sarebbero arrivati».

Gli sposi provano molta sofferenza per l’assenza di un figlio, una sera a Giulia viene un’ispirazione profonda che cancella finalmente dal suo viso il dolore per la mancata maternità:

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«– Non possiamo aspettare in eterno. Nel frattempo, se non ci è concesso ricevere figli nostri, ci occuperemo di quelli degli altri, – disse Giulia, sollevando gli occhi dal suo profondo scoramento. (…)Il mondo è pieno di figli senza genitori. Quelli saranno i nostri figli, perché sono tutti figli di Dio. Nella sua voce l’inesorabile fierezza della determinazione. Tancredi le afferrò le mani e si arrese ai suoi occhi. Non l’aveva mai vista così risoluta: – Dici davvero? – Certamente, – rispose Giulia, – ma ciò non significa che smetteremo di cercare di averne di nostri, – aggiunse, per far scomparire il panico sul volto del marito. Sembrava che la forza della sua anima traboccasse e lo investisse come mai prima di allora. – Sono d’accordo. La nostra famiglia troverà altre strade per crescere. – Tancredi la tirò a sé: – Sarà la provvidenza a segnarne i confini, fossero pure centinaia di figli! Giulia lasciò che un bacio suggellasse quel momento e si abbandonò a lui. Si tolsero il respiro con i baci e fecero l’amore, fino a dimenticare il tempo e il mondo intero. Nessun figlio, allora tutti figli: il loro nuovo imperativo morale».

Le opere dei coniugi Falletti Barolo sono innumerevoli: i lavori di rinnovo delle carceri, la riforma del sistema educativo con la fondazione delle Maddalene, congregazione femminile per giovani di ambienti degradati ed ex detenute, la Scuola Popolare a Borgo Dora, il primo asilo italiano per i figli degli operai, il nuovo Ordine religioso delle suore di Sant’Anna e molte altre. Per finanziare tutti questi progetti la marchesa Giulia accoglie l’invito di Cavour che le propone di “unire le forze e produrre noi un vino all’altezza dello champagne”.

«E da quel momento le due tradizioni vinicole, quella francese e quella piemontese, presero strade diverse. Il nuovo vino che ne venne, denominato Barolo, mentre soddisfaceva le ambizioni di un politico anticlericale, contribuì alla carità verso tanti poveri attraverso le mani di una nobile cristiana».

Scopriamo allora che, come il vino eucaristico ha nutrito la sete di fede di questi due sposi, così il Barolo – diventato poi uno dei simboli più rappresentativi del prodotto italiano d’eccellenza – nasce per “saziare” nel corpo e nell’animo i più poveri, i preferiti agli occhi di Cristo.

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