Nella società indiana, stratificata nell’antica divisione in caste e sottocaste, un gruppo sociale ha lo stigma del disprezzo e, fino a non molto tempo fa, della vergogna: i transessuali o transgender, persone biologicamente nate con caratteristiche sessuali di entrambi i generi.
Ebbene ora la Caritas India, agenzia ufficiale della Chiesa cattolica, sospinta dagli appelli di papa Francesco a contrastare una mentalità apertamente discriminatoria, ha annunciato un programma di assistenza e promozione sociale specificamente dedicato ai transgender.
Nella dichiarazione diffusa dalla Caritas, il direttore Frederick D’Souza indica «una nuova scuola di pensiero», spiegando: «Le persone che soffrono, non per colpa loro, a causa della confusione sessuale nel loro corpo richiedono la nostra attenzione e sostegno».
Con tale programma, la Caritas spera di «sradicare pregiudizi tradizionalmente esistenti contro di loro», nella consapevolezza che tale decisione «avrà sicuramente implicazioni su altri istituti e organizzazioni, che potranno anche cominciare a riflettere», e dunque con l’auspicio che questa attenzione diventi paradigmatica nella società.
C’è da scommettere che questo programma sarà un «sasso nello stagno»: fondata nel 1962, la Caritas India è riconosciuta e apprezzata come organizzazione leader in campo sociale, operando attivamente con programmi di aiuto umanitario, sviluppo sociale, ricostruzione, riduzione della povertà, sviluppo sostenibile, istruzione e promozione sociale delle donne e dei gruppi più poveri, vulnerabili ed emarginati.
Tra costoro vi sono i transgender che in India e in tutti i paesi del subcontinente indiano, dal Pakistan fino al Banglasdesh, sono una minoranza tradizionalmente mal tollerata: sono spesso visibili mentre vagabondano a chiedere l’elemosina o a prostituirsi. Salvo essere convocati, secondo un costume, anch’esso secolare, che li considera portafortuna, per benedire novelli sposi e neonati.
Eppure a livello legale, nel 2014 si è registrata in India una svolta epocale: la sentenza della Corte suprema ha ufficialmente riconosciuto alle persone transgender gli stessi diritti degli altri cittadini, contribuendo a stemperare l’ostilità e i pregiudizi circolanti, e definendo per loro pari opportunità sociali: oggi possono sposarsi, ereditare dei beni, accedere agli impieghi nelle istituzioni pubbliche.
Qualcosa si è mosso. Ha destato scalpore e ha avuto risonanza internazionale, nel senso della promozione dei loro diritti, il successo ottenuto dalla 6 Pack Band, complesso musicale formato da sei donne transgender, che ha partecipato anche ad alcune produzioni di «Bollywood».
Ha acquistato una certa notorietà anche il gruppo delle Dancing Queens di Mumbai, formato da transgender e gay che usano la danza per sensibilizzare l’opinione pubblica, e per guadagnarsi da vivere, danzando e cantando alle feste nuziali e aziendali.
Ma lo stigma sociale resta perlopiù immutato e le persone transgender vivono tuttora disagi inenarrabili: nell’Unione indiana ne vivono circa 2 milioni, note con l’appellativo di hijra (ermafroditi). E anche se le loro benedizioni sono richieste in occasione dei matrimoni e delle nascite, questo non impedisce che subiscano maltrattamenti e sfruttamento. Scacciate di casa, private dell’istruzione o delle opportunità di occupazione, sono spesso costrette a prostituirsi. C’è ancora un abisso, insomma, tra i diritti acquisiti sulla carta e la realtà nelle strade.
Alcuni stati come l’Orissa, nell’India sudorientale, hanno iniziato a concedere alle persone transgender sussidi sociali e lo stato – dopo la sentenza della Corte suprema – sta cercando di includerle nei programmi di tipo economico-sociale, per integrarle nella società. A Mumbai, oltre mille persone transgender sono state addestrate dalla polizia per contribuire alle attività di controllo del traffico e alla gestione dei grandi assembramenti di persone.
Ora anche la Chiesa cattolica, grazie all’iniziativa della Caritas, rompe gli schemi e gli stereotipi e si schiera apertamente contro ogni discriminazione tuttora in vigore nella prassi delle relazioni sociali. Stessa attenzione è destinata ai dalit, i «fuoricasta» che, nella mentalità dominante, sono privi di ogni elementare diritto e riconoscimento sociale.
L’approccio di papa Francesco ha fatto breccia – celebre la sua battuta «chi sono io per giudicare?» – e solo pochi giorni fa il Pontefice ha dichiarato che «quasi sicuramente nel 2017 sarà in India e Bangladesh». La Chiesa indiana aspetta la sua presenza per riproporre l’annoso problema delle caste, abolite sulla carta, ancora presenti nella prassi.