La visita apostolica del vescovo di Roma Francesco in Georgia e in Azerbaigian è segno di quella attenzione della Chiesa cattolica attraverso i suoi pastori e l’impegno quotidiano di numerosi laici per una concreta comunione e tensione verso l’unità tra i discepoli di Cristo e un costruttivo dialogo interreligioso per la pace tra le genti, su un comune denominatore: la fede in Dio Creatore, Padre Misericordioso, fonte di fraternità e fedele in questa a nella vita futura.
La mancata presenza della delegazione ortodossa all’Eucarestia presieduta da papa Francesco è stato certo un dispiacere per tutti coloro che stimano la tradizione dei due polmoni della Chiesa. Non credo che il motivo possa essere teologico. Certo vi sono delle singolarità per l’Eucarestia, che certamente il dialogo teologico saprà trovare una complementarietà non irenica, ma teologico-sacramentale.
Al di là delle motivazioni date, conoscendo il mondo ortodosso (comunità greca, serba e romena del Friuli Venezia Giulia) con il quale da quasi quarant’anni lavoro, grazie a Dio con risultati rispettosi, mi permetto di sottolineare che lo stile da perseguire è quello di una quotidianità fatta di ascolto, attenzione, presenza e soprattutto impegno di carità, senza pretese di proselitismo, ma di valorizzazione sinergica delle differenze.
In Georgia forse, come già ebbi modo di apprendere dopo la visita – ormai lontana – di Giovanni Paolo II in quella terra, c’è bisogno di una relazionalità realmente amicale e collaborativa, intrisa di rispetto e di valorizzazione della tradizione senza antagonismi mortificanti. Basterebbe richiamare l’atteggiamento del delegato Roncalli sia a Sofia, che in Grecia e in Turchia. Questa è attenzione fraterna e paritaria, che si fa presenza nei momenti difficili, fidandosi non certo alle mere logiche diplomatiche, ma a quelle della fede e del cuore.
Così negli anni settanta il vescovo cattolico di Trieste è riuscito ad aiutare la comunità serba della città a ritornare in seno alla Chiesa- madre di Belgrado.
Ha ragione papa Francesco nel richiamare che l’atteggiamento che deve guidare la reciproca vicinanza con i fratelli cristiani di altre confessioni non deve rispondere a mire di proselitismo, ma di reciproca lode a Dio per la condivisione delle medesime radici che ci portano a Cristo, unico mediatore di grazia e di redenzione.
Ricordo che durante il terremoto del 1976 in Friuli riuscimmo a lavorare insieme con la comunità evangelica metodista di Trieste, senza differenze ma condividendo il tempo, gli interventi, le tende e la preghiera con le popolazioni colpite. Da lì vi è stata poi una reciproca vicinanza pastorale.
Con il mondo ortodosso, intriso di tradizioni pluri-millenarie è doverosa la fraternità e la valorizzazione di ciò che per loro è il patrimonio identitario, come la liturgia, i monasteri, la vita dei presbiteri e un religioso orgoglio che non vuole essere assolutizzazione della loro identità, ma patrimonio che desiderano sia considerato.
I criteri di un certo ecumenismo spesso di facciata o di cultura, senza una vita tra comunità e presbiteri cattolici e ortodossi di vera amicizia umana e religiosa con il mondo dell’Oriente, non tolgono i sospetti.
Se poi parliamo delle Chiese autocefale dell’ex blocco dell’est, questo è ancora più vero. Certo il nostro affetto e stima per la presenza di un cristianesimo latino in quelle terre è doveroso e gioioso. È importante però, come ha sottolineato papa Francesco, che ci sia da parte cattolica rispetto per l’opera della Chiesa ortodossa e delle sue tradizioni, senza recriminazioni e integralismi soprattutto da parte dei pastori.
Credere all’ecumenismo e realizzarlo come scelta pastorale significa amare la propria appartenenza confessionale e rapportarsi con quella altrui, sapendo che Cristo è tutto in tutti e che l’unità della sua Chiesa non è sinonimo di uniformità, ma sinfonia di tradizioni e di spiritualità attraverso un’umanità libera e rispettosa.
* Vicario episcopale per il laicato e la cultura – diocesi di Trieste