Si è svolto presso la Pontificia Università Urbaniana, il quinto incontro sulla crisi umanitaria in Siria e Iraq promosso dal Pontificio Consiglio Cor Unum. Presenti anche l’inviato delle Nazioni Unite in Siria, Staffan de Mistura, il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin e diversi responsabili di organizzazioni umanitarie. Fra i relatori anche i nunzi in Siria e Iraq, monsignor Mario Zenari e monsignor Alberto Ortega. Questi ultimi due hanno risposto ad alcune domande.
SIRIA
Monsignor Zenari, di fronte al conflitto siriano, a quanto sta accadendo ad Aleppo, quale appello rivolge alla comunità internazionale?
«Io ripeto quello che dice continuamente il Papa e che ha detto ancora questa mattina (ieri, ndr) e ieri (l’altro ieri, ndr) in una maniera molto forte, non si può tollerare una situazione come questa, una guerra senza regole, senza alcuna regola, le regole umanitarie sono saltate completamente dall’inizio del conflitto. Non possiamo tollerare che paghino il conto di questa guerra atroce i bambini, le donne, gli anziani, la popolazione inerme, è una cosa inaccettabile, deve finire questo modo di proseguire la guerra, deve finire la guerra. Devono cessare anche le gravi violazioni dei diritti umani e del diritto umano internazionale».
Particolarmente gravi appaiono in Siria, le violazioni dei diritti umani…
«Anche il segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon, più di un anno fa ricordava che una guerra ha anche delle regole, ma in Siria questo è saltato, tutto è lecito. Sono ancora molte, inoltre, le zone in cui la gente si trova sotto le bombe. La prima condizioni per far arrivare gli aiuti umanitari è che cessino le violenze. Già avete visto il 19 settembre scorso, quel convoglio umanitario che aveva tutte le licenze possibili, è stato colpito e una ventina di persone sono morte. Quindi bisogna far cessare le violenze, allora si può pensare agli aiuti umanitari».
C’è ancora spazio per un’iniziativa diplomatica in grado di fermare il conflitto?
«Direi che le possibilità ci sono sempre, anche se sono ridotte, ma non bisogna mai smettere di tentare. Direi che questo conflitto si sta evolvendo continuamente da cinque anni e mezzo, muta, e di conseguenza deve evolversi anche la diplomazia e cercare ogni spiraglio, mai chiudere la partita anche se è un’impresa molto dura, mai dire mai».
Cosa sta succedendo sotto il profilo degli aiuti umanitari?
«Adesso, parlando con l’inviato speciale dell’Onu, ringraziavo le Nazioni Unite e il personale delle organizzazioni umanitarie, perché oltre all’indifferenza verso la guerra e le violenze pure denunciate con forza dal Papa, c’è pure quest’altro lato della medaglia nella crisi siriana, la solidarietà, l’impegno di tanti. Ci sono ormai più di mille operatori del settore umanitario che hanno perso la vita e diversi di questi erano giovani volontari. Non dobbiamo dimenticarlo. Guardiano certo alle atrocità, ma anche a quei giovani che hanno perso la vita in quest’opera umanitaria. Pensiamo alle circa 20 persone che sono morte quando è stato attaccato il convoglio umanitario. Dobbiamo essere riconoscenti verso queste persone e queste organizzazioni, ci sono anche le opere e le attività sociali e assistenziali della Chiesa, abbiamo anche alcuni cristiani che hanno perso la vita nell’esercizio di queste missioni umanitarie».
Qual è il ruolo delle organizzazioni caritative della Chiesa?
«La Chiesa ha promosso attività caritative e assistenziali in Iraq e soprattutto in Siria per un valore complessivo di 150 milioni di dollari nel 2015, raccolti da conferenze episcopali di tutto il mondo, da enti cattolici eccetera. Quindi è una goccia, ma una goccia importante. Si tratta di interventi in campo sanitario, educativo e via dicendo».
Qual è l’obiettivo di questa conferenza sugli aiuti?
«La parola chiave di questa conferenza è coordinamento: le risorse non sono immense, quindi dobbiamo cercare di coordinare i nostri aiuti umanitari e scegliere anche delle priorità. Dai bambini, fino alla situazione sanitaria che in Siria è disastrosa, pensiamo a tutti gli ospedali messi fuori uso, ecco, la Chiesa cattolica ha cinque ospedali in Siria che però fanno fatica a mantenersi perché non hanno nessun aiuto e cercano di offrire assistenza a tutta questa gente che non ha da pagare il servizio sanitario».
Come testimone, può dirci che situazione si vive in Siria?
«Sono stato ad Aleppo a fine maggio, quando era ancora possibile, ho visitato diverse di queste realtà, non è che si possa fare miracoli, ma l’importante è essere vicini alla gente, essere sul posto. E lo dico sempre anche ai preti, ai religiosi e alle religiose, le nostre tasche non sono piene di soldi e di aiuti, ma ciò che è importante e dà un valore aggiunto molto forte è la nostra presenza; ho visto che anche nei villaggi dove vivono cristiani e musulmani tutti apprezzano quando rimane il prete o il religioso, perché la presenza di un uomo di Dio dà conforto, sapete che in Medio Oriente questo conta molto, contano i valori religiosi e la presenza di una persona consacrata, per tutti, cristiani e musulmani».
IRAQ
Monsignor Ortega, dopo tutti questi anni di tensioni e di conflitti in Iraq, sciiti, sunniti e altri gruppi, potranno tornare a vivere insieme?
«Questa è la grande sfida, come diceva qualche giorno fa il cardinal Tauran, siamo condannati al dialogo, forse non è facile ma è la vera sfida e l’unica strada. Altrimenti continueranno le violenze, ma questo è un male per tutti. E allora anche se ci sono differenze e anche se non è facile, la strada chiaramente da intraprendere è quella del dialogo, della riconciliazione. E su questo punto i cristiani possono svolgere un ruolo di fondamentale importanza, perché è parte della nostra tradizione, questa apertura all’altro, questo perdono, quest’amore per tutti senza discriminazione».
Che tipo di interventi umanitari sta realizzando la Chiesa nel Paese?
«A livello di aiuti umanitaria, la Chiesa sta cercando di compiere un importante lavoro di assistenza per aiutare non solo i cristiani ma anche tanti rifugiati e persone di tutte le fedi che stanno soffrendo. Attraverso la Caritas e diverse istituzioni religiose, si sta facendo un lavoro prezioso. Per altro verso ci si sta impegnando in favore della pace, e su questo punto si cerca di dialogare con le autorità. In tal senso sono importanti i ripetuti appelli del Papa che non si stanca mai di rivolgersi a tutti i responsabili affinché lavorino per la pace che è così necessaria per questa regione».
In quest’opera di aiuto, quali sono le maggiori difficoltà che s’incontrano e quali le urgenze?
«Ci sono località in cui non c’è sicurezza, questo è un problema, ma direi che la necessità più urgente è quella di favorire la riconciliazione e lavorare insieme per cercare di unire i diversi gruppi presenti nel Paese e farli collaborare per la ricostruzione. La battaglia contro lo Stato islamico va avanti, però c’è un altro aspetto fondamentale: bisogna pensare al futuro, ricostruire il Paese, a livello materiale ma anche per dare vita a una pace e a una stabilità di cui ha bisogno l’Iraq, un grande paese che non merita la situazione che sta vivendo».
È possibile immaginare un ritorno dei profughi?
«Speriamo, e questo è il desiderio di tutti, che tanti rifugiati possano un giorno non troppo lontano, rientrare nelle loro case e riprendere la loro vita con una certa normalità per costruire una società insieme a tutti i gruppi presenti nel Paese».