“In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”.
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza» (Lc 16, 1-13).
La parabola dell’amministratore disonesto segue direttamente, in Luca, le tre parabole sulla misericordia del capitolo 15, l’ultima delle quali è quella del figliol prodigo (Lc 15, 11-32).
Ecco l’introduzione alla prima di queste tre parabole: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”. Allora egli disse loro questa parabola (Lc 15, 1-3)».
Può far riflettere come si è potuto talora cercare di addomesticare queste parabole, per esempio dicendo che il figliol prodigo si è pentito ed è tornato dal padre. Ma se una guida cerca di accogliere la parola lasciandosi condurre, certo per grazia, anche da essa e non dai propri schemi forse può venire orientata ad osservare che un figlio che si pente di cuore avverte il dispiacere del dolore arrecato al padre. Il figliol prodigo torna invece, lo dice lui stesso, perché muore di fame mentre i salariati in casa di suo padre hanno cibo in abbondanza (cfr Lc 15, 16-19). Che si tratti di un rinsavimento germinale, ancora misto a interessi e bisogni giusti e sani ma visti senza tutto questo grande amore, mi pare confermato anche dal fatto che il giovane vede come salariati, mercenari, i servi (così chiamati dal padre in Lc 15, 22, mentre significativamente il figlio maggiore in Lc 15, 26 li chiama bambinetti, forse anche garzoncelli), ossia queste persone che hanno accettato di cercare di lasciarsi portare da Dio come suoi piccoli strumenti. È ancora tutto in tante cose un do ut des, tipico di una giustizia esteriore, non dell’amore. È il padre che attendeva il ritorno del figlio sul limitare della delicatezza, della non invadenza e ora può, senza imposizione, accogliere con tutto il cuore quella piccola apertura, donando ogni buona grazia al figlio sacrificando il vitello grasso, festeggiando insieme a tutti.
Si è anche detto spesso che non si sa come termini la parabola del figliol prodigo perché non vi è narrata la decisione ultima del figlio maggiore. E certo, come si osserva, ciò segnala chiaramente che si tratta di una situazione che interpella l’ascoltatore. Ma in realtà un possibile prosieguo lo vediamo appunto nella parabola cui accennavo all’inizio, detta anche del fattore, o economo, infedele. Anche di questa parabola però si è forse potuto talora leggere moralisticamente il significato. E dunque potendo perdere il non casuale collegamento col brano precedente. Si è cercato infatti, talora, di sottolineare per esempio che qui si tratta della maggiore saggezza, astuzia, pur nella strada sbagliata, di quell’amministratore. Il brano suggerirebbe che la stessa saggezza usata da quello per i suoi egoistici interessi dovrebbe venire usata dai figli della luce per essere generosi col denaro che, vi si dice, è una ricchezza altrui, ossia di Dio e per tutti, non solo per un singolo. Plausibile, vero, ma non a caso a molti tale interpretazione sembra lasciare qualche ulteriore domanda. L’amministratore è accusato di sperperare, di far funzionare male l’amministrazione, non di rubare, di tenere per sé, i beni del padrone. Il padrone poi dovrebbe casomai amaramente osservare che i figli di questo mondo si comportano più astutamente invece pare particolarmente contento, anzi finalmente liberato, appagato, del nuovo atteggiamento del dipendente che persa l’amministrazione, offre lauti sconti, con cura e attenzione speciale, a ciascun debitore.
Gesù poi rincara la dose non accennando, a commento del racconto, al non rubare, al non estorcere, al non tenere per sé, ma, si direbbe, proprio al farsi amici con la ricchezza altrui, condonando debiti dovuti appunto ad altri. Forse non è un caso se non a pochi questo padrone sembra un po’ particolare. È dunque interessante rilevare che, per esempio, le persone che si avvicinano ad un gruppo di ascolto comunitario del vangelo possono porre domande che cercano di cogliere la realtà del brano meditato mentre la guida può cadere nell’errore di leggere in quel brano quello che già sa, ha compreso, senza lasciarsi interrogare sempre più attentamente, apertamente, anche, tra le altre cose, dal testo. Anche qui dunque, come ho già osservato in tale ambito e circa tanti altri aspetti dell’umano vivere, si può talora trattare anche di un graduale uscire da un certo schematismo razionalistico per ritrovare la semplice, piena di buonsenso, coscienza, il cuore, in sempre rinnovato contatto con la viva realtà.
La lettura della parabola mi sembra indurre ad osservare che, finché era lui l’amministratore della fattoria, l’economo pretendeva che tutto funzionasse a perfezione, come se l’azienda fosse sua. Lo si vede anche dai documenti stilati con ordine, con ricevuta, verificabili da chiunque. Dunque può apparire oltretutto poco verosimile l’interpretazione secondo la quale il fattore estorceva nascostamente somme anche per sé ma anche quella secondo cui egli abbia nella parabola rinunciato alla parte legittimamente spettante a lui. Dalla fretta con cui fa firmare la ricevuta che appare falsa, dal fatto stesso della firma e anche dal complesso della storia sembra di percepire che lo sconto è sui crediti del padrone. D’altro canto non avrebbe avuto chissà quali meriti se, messo alle strette, avesse rinunciato all’estorsione. Né avrebbe avuto gran senso rinunciare al sostentamento del suo legittimo guadagno sperando di riaverlo o di averne di più gratuitamente subito dopo dagli stessi debitori. Gli sconti in realtà sono così grandi da tendere a scoraggiare quelle interpretazioni e da suscitare invece la gratitudine di quei debitori. E qui, poi, ripeto, il padrone sembra stranamente contento della sua furberia. Sembra che per lui sperperare denaro nella sua impresa significhi proprio non fare sconti. Il fattore non può più amministrare perché è troppo precisino. In fin dei conti è come il figlio maggiore della parabola precedente che non si è mai goduto il mangiare un capretto con gli amici perché attendeva che il padre glielo desse come legittima spettanza e non per dono. Ora il dono al figlio minore lo manda ai matti. Il figlio maggiore sarà forse lui a non voler entrare nella festa mentre divenuto poi lui stesso, in vece del padre, amministratore, deve rendere parola (dice il testo greco), senso, proprio a sé stesso, del suo operato ma non può proprio perché troppo logico. La parola non può venire ridotta ad una logica del due più due uguale quattro. L’amministratore viene posto, dice significativamente egli stesso nel testo, oltre l’economato. Ora si accorge che quello che esigeva con meri calcoli dagli altri è faticoso, difficile, anzi di fatto gli risulta impossibile. Zappare non ho forza, mendicare mi vergogno. Senza la grazia, la chiamata, i tempi, di Dio, l’impegno dell’amore e quello della preghiera sono impossibili, anzi specie il pregare può apparire anche un po’ strano. Anche riconoscere di aver bisogno, imparare, farsi aiutare, dagli altri può essere una grazia. E se agli altri l’amministratore non dona la misericordia, la grazia, di Dio, come potranno essi aiutarlo? Il “creditore” si scopre debitore storico dei suoi debitori. Ma non anche aspirante loro futuro debitore. Infatti, meglio, aspira alla loro accoglienza di cuore, gratuita. Il cammino dunque è cercare con passi graduali (ossia il poco) la grazia che si trova nelle dimore, nei tabernacoli, eterni, dove Cristo stesso ci attende. Una chiara allusione, mi pare, ad un Dio che sta con i suoi figli, specie i più bisognosi.
Quest’uomo dunque si ritrova proprio quando Dio permette che si perda, che si scopra perso nei propri calcoli, nelle proprie ansie. Talora si sente dire che l’amore per le persone smarrite non deve finire per confondere quelle giuste. Nel brano in questione, ma anche, per esempio, proprio nella parabola della pecorella smarrita (Lc 15, 3-7), Gesù sembra alimentare questa confusione mettendo in crisi, anzi, come troppo formali, esteriori, da do ut des, anche queste parole giusti, fedeli. Non è una legge esteriormente rispettata il criterio ultimo della fedeltà, lasciamo a Dio il conoscere i cuori e lasciamoci accogliere dal cuore, non dai legalismi, di Dio e, in lui, dei fratelli. Il fattore riteneva di stare nella magione per legittimi meriti propri ora vede che ci stava per grazia, che solo la grazia è una casa, solo una almeno germinale, misericordiosa, comunione è la grazia. Il denaro, mammona, dunque qui può indicare il vario comprare le cose mentre l’amore è dono gratuito, in Dio un dono senza limiti. Un certo rapporto con i soldi è il poco di qualcosa di più profondo: l’essere fedeli, il fidarsi, del mercanteggiare, del do ut des, invece che dell’amore, del dono, del perdono. La parabola dunque ci dice che il passare dalla legge alla grazia non può avvenire con un ragionamento logico. È invece una graduale esperienza, che può passare anche, proprio, dal sentirsi persi, confusi, con i nostri conti troppo striminziti che magari abbiamo a lungo cercato di far tornare per forza ma possono ad un certo punto non tornare più, lasciarci spiazzati, come avendo perso l’amministrazione della nostra vita. Uno spiazzamento dunque che proprio ci può aprire alla grazia, può già essere un dono della grazia. Cominciare ad aprirsi, per grazia ricevuta e accolta, ad un diverso rapporto col denaro, il poco, può aiutare ad un più profondo passaggio dalla legge alla grazia. Il fatto che la parabola dell’economo infedele venga subito dopo il dialogo del figlio maggiore col padre può mostrare che il problema della legge forse può far inceppare, confondere, più facilmente qualche guida, qualche intellettuale, molto strutturati, mentre la stragrande maggioranza della gente sembra accogliere con semplicità e gioia la grazia di un amore autentico e per questo così divino e così umano. Il figlio minore scappava dalla legge, è perso dalla legge e si riscopre amato dal Padre ben al di là della legge. Il figlio maggiore-amministratore si strutturava nella legge, si scopre perso nella legge e si ritrova nel bisogno di quella grazia così ben conosciuta, accetta, a modo loro, da quei debitori insolventi che hanno messo in crisi il suo sistema. E che ora scopre fratelli ognuno con un suo specialissimo, graduale, cammino, una sua specialissima dimora, nello stesso cuore del Padre.
In questo brano dunque Gesù accosta e rimescola piccolezza, povertà, prossimità, misericordia. Che bella una Chiesa che anche cercando, per grazia, di farsi profondamente, attentamente, vicina ad ogni persona, scoprendosi bisognosa di ogni persona, si spoglia sempre più di ogni orpello, di ogni strutturazione che va eventualmente superata in Cristo. Nella parabola del buon samaritano (Lc 10, 25-37) vediamo sempre più mille sfumature che ci aiutano a riflettere. Il samaritano non passa per caso è in viaggio (per come può, dunque, portato dal disegno di Dio), si fa vicino all’uomo lasciato mezzo morto dai briganti e, tra l’altro, lo solleva sulla sua (del samaritano) ricchezza, dice il testo originale in greco così chiamando la sua cavalcatura e dunque forse la conduce a piedi e lo porta, dice letteralmente il testo, all’ospitatutti.
«Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”. Allora egli disse loro questa parabola» (Lc 15, 1-3). Cosa può significare questo brano (come tanti altri nei vangeli)? Può Gesù mangiare con queste persone, dare la vita per loro, dare anche sua madre, etc. e ritenerle non degne, ritenere qualcuno non degno, dell’eucaristia? Non ha proprio l’eucarestia aperto gli occhi agli increduli discepoli di Emmaus (cfr Lc 24, 30-31)? Sono tutte, come sempre, solo domande, che pongo nella comunione e nell’obbedienza alla Chiesa.
«Significa che la Chiesa è in movimento, è dinamica, aperta, con davanti a sé prospettive di nuovi sviluppi. Che non è congelata in schemi: accade sempre qualcosa di sorprendente, che possiede una dinamica intrinseca capace di rinnovarla costantemente. Ciò che è bello e incoraggiante è che proprio nella nostra epoca accadono cose che nessuno si aspettava e mostrano che la Chiesa è viva e trabocca di nuove possibilità». Così Benedetto a proposito di Papa Francesco e della Chiesa oggi in Ultime conversazioni, a cura di Peter Seewald, Milano 2016, pg 43.
Ricordo che Benedetto XVI ha chiesto a Maria, a Fatima, di affrettare la vittoria del suo cuore immacolato entro il centenario della prima apparizione (13 maggio 2017).