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“Dio si annuncia amando e incontrando le persone”

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Vatican Insider - pubblicato il 26/09/16
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Nell’omelia pronunciata domenica 25 settembre in occasione del Giubileo dei catechisti, Francesco ha sottolineato ancora una volta che cosa significhi annunciare il Vangelo in una società post-cristiana. Vale la pena rileggere per intero il breve testo del Papa.  

Innanzitutto, Francesco, prendendo spunto dalle parole di san Paolo, ricorda l’importanza di «tenere fisso lo sguardo su ciò che è essenziale per la fede», sul primo annuncio pasquale: «il Signore Gesù è risorto, il Signore Gesù ti ama, per te ha dato la sua vita; risorto e vivo, ti sta accanto e ti attende ogni giorno». Non ci sono contenuti «più importanti», sottolinea il Papa e «nulla è più solido e attuale».  

Ogni altro contenuto della fede «diventa bello» solo se rimane connesso a questo centro. Se invece diventa una premessa isolata o data per scontata per poi parlare d’altro, come talvolta appare in tante dotte quanto autoreferenziali disquisizioni sui temi morali lontane mille miglia dal vissuto delle persone, finisce per essere messa in secondo piano e svuotata di senso.  

Francesco ha aggiunto: «È amando che si annuncia Dio-Amore: non a forza di convincere, mai imponendo la verità, nemmeno irrigidendosi attorno a qualche obbligo religioso o morale. Dio si annuncia incontrando le persone, con attenzione alla loro storia e al loro cammino. Perché il Signore non è un’idea, ma una Persona viva: il suo messaggio passa con la testimonianza semplice e vera, con l’ascolto e l’accoglienza, con la gioia che si irradia. Non si parla bene di Gesù quando si è tristi; nemmeno si trasmette la bellezza di Dio solo facendo belle prediche. Il Dio della speranza si annuncia vivendo nell’oggi il Vangelo della carità, senza paura di testimoniarlo anche con forme nuove di annuncio». 

Il Papa ha quindi commentato la parabola evangelica del ricco epulone, che non si accorge del povero Lazzaro alla sua porta e finisce all’inferno. «Questo ricco, in realtà, non fa del male a nessuno – spiega Francesco – non si dice che è cattivo. Ha però un’infermità più grande di quella di Lazzaro, che pure era “coperto di piaghe”: questo ricco soffre di una forte cecità, perché non riesce a guardare al di là del suo mondo, fatto di banchetti e bei vestiti. Non vede oltre la porta di casa sua, dove giace Lazzaro, perché non gli interessa quello che succede fuori. Non vede con gli occhi perché non sente col cuore. Nel suo cuore è entrata la mondanità che anestetizza l’anima. La mondanità è come un “buco nero” che ingoia il bene, che spegne l’amore, perché fagocita tutto nel proprio io. Allora si vedono solo le apparenze e non ci si accorge degli altri, perché si diventa indifferenti a tutto. Chi soffre questa grave cecità assume spesso comportamenti “strabici”: guarda con riverenza le persone famose, di alto rango, ammirate dal mondo, e distoglie lo sguardo dai tanti Lazzaro di oggi, dai poveri e dai sofferenti che sono i prediletti del Signore». 

Sono le conseguenze che ciascuno potrebbe trarre dalla lettura della parabola e che fotografano il male oscuro che caratterizza anche il nostro tempo: l’indifferenza. Ma nel cuore di Dio il povero ha un volto e un nome – è l’unica parabola di Gesù nella quale un personaggio abbia un nome – mentre il ricco è anonimo. «Un cristiano deve fare la storia! Deve uscire da sé stesso, per fare la storia! Ma chi vive per sé non fa la storia. L’insensibilità di oggi scava abissi invalicabili per sempre. E noi siamo caduti, in questo momento, in questa malattia dell’indifferenza, dell’egoismo, della mondanità», ha detto Papa Bergoglio.  

Che nel passaggio finale della breve omelia ha sottolineato la grande dignità di Lazzaro: «Dalla sua bocca non escono lamenti, proteste o parole di disprezzo. È un insegnamento valido: come servitori della parola di Gesù siamo chiamati a non ostentare apparenza e a non ricercare gloria; nemmeno possiamo essere tristi o lamentosi. Non siamo profeti di sventura che si compiacciono di scovare pericoli o deviazioni; non gente che si trincera nei propri ambienti, emettendo giudizi amari sulla società, sulla Chiesa, su tutto e tutti, inquinando il mondo di negatività. Lo scetticismo lamentevole non appartiene a chi è familiare con la Parola di Dio». 

Parole queste ultime che fotografano bene l’atteggiamento di chi sta quotidianamente con il fucile puntato alla ricerca di «deviazioni» nei propri fratelli di fede da mettere alla berlina con linguaggi irridenti e di scherno, di chi vive soltanto in funzione di un nemico da abbattere, quasi sempre individuato tra altri cristiani ai quali si fa lo screening giornaliero di dottrina come se si eseguissero gli esami del sangue. 

Se è «amando che si annuncia Dio-Amore», se «Dio si annuncia incontrando le persone, con attenzione alla loro storia e al loro cammino», non restando indifferenti di fronte ai tanti Lazzaro piagati nel corpo e nello spirito che stanno davanti alle nostre porte, si comprende quanto siano sterili i richiami e le preoccupazioni di quanti affermano che ora nella Chiesa si parli troppo dei poveri. E di quanto siano inadeguate certe invettive apocalittiche. 

Il 13 maggio 2010, a Fatima, Benedetto XVI disse ai vescovi del Portogallo: «Quando, nel sentire di molti, la fede cattolica non è più patrimonio comune della società e, spesso, si vede come un seme insidiato e offuscato da “divinità” e signori di questo mondo, molto difficilmente essa potrà toccare i cuori mediante semplici discorsi o richiami morali, e meno ancora attraverso generici richiami ai valori cristiani. Il richiamo coraggioso e integrale ai principi è essenziale e indispensabile; tuttavia il semplice enunciato del messaggio non arriva fino in fondo al cuore della persona, non tocca la sua libertà, non cambia la vita. Ciò che affascina è soprattutto l’incontro con persone credenti che, mediante la loro fede, attirano verso la grazia di Cristo, rendendo testimonianza di Lui». 

Cioè persone che incontrano altre persone, con attenzione alla loro storia e al loro cammino, che ascoltano prima di parlare e accolgono prima di giudicare. Non con ripetitori automatici di dottrina o di richiami morali, che come spiegava Papa Ratzinger, non toccano i cuori. Anzi, finiscono per allontanare ancor di più i lontani innescando dinamiche opposte a quelle che leggiamo nel Vangelo. «Si avvicinarono a Lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo», scrive Luca, descrivendo la folla di persone ferite, irregolari, di peccatori e peccatrici, che venivano attirate da Gesù, che lo seguivano. Mentre «i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”», scandalizzati perché il Nazareno rompeva tradizioni, convenzioni sociali e ritualismi. Irritati perché Lui, il Verbo di Dio fattosi carne, spiazzava gli esperti di dottrina abituati a pre-giudicare tutto e tutti. Arrabbiati perché Gesù aveva messo in luce allora – e continua a farlo ora – l’ipocrisia di chi vive per «scovare pericoli o deviazioni», «emettendo giudizi amari sulla società, sulla Chiesa, su tutto e tutti». Di chi vive per scovare le pagliuzze nell’occhio altrui senza accorgersi della trave che ha piantata sul proprio.  

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