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Birmania, pace con le minoranze etniche: la Chiesa ci crede

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Vatican Insider - pubblicato il 13/09/16
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L’apparente «nulla di fatto» con cui si è conclusa la conferenza nazionale sulla pace con le minoranze etniche, convocata in pompa magna dal governo birmano, con la presenza di 1.500 delegati di oltre 70 gruppi nella nuova capitale Naypyitaw, non deve scoraggiare. L’assenza di un cessate-il-fuoco non va considerata come un passaggio negativo: è mancato il tempo tecnico di pervenire a un accordo, ma il solo fatto di aver organizzato un incontro che ha ricordato la storica conferenza di Panglong del 1947 – meeting che affrontò la delicata questione delle minoranze etniche agli albori della nascita della Birmania post-coloniale – è già una buona notizia. E che i presenti abbiano comunque accettato di cimentarsi per definire un accordo globale, è un ottimo segnale. 

«La questione dell’inclusione delle minoranze etniche nella nazione dura da almeno 60 anni e in questi decenni ci sono stati molti ostacoli e fraintendimenti. Oggi si è riattivato un processo di dialogo con l’obiettivo della riconciliazione nazionale, ed è un grande passo avanti: è una occasione preziosa per l’intera nazione», ha spiegato il vescovo Francis Daw Tang, che vive a Myitkyina, nello stato del popolo kachin, a maggioranza cristiana, una delle minoranze tuttora in conflitto con l’esercito regolare birmano. Nella sua diocesi oltre ottomila sfollati interni non possono rientrare nei loro villaggi, a causa degli scontri, e sono assistiti dalla Caritas locale.  

L’auspicio della Chiesa è che, dopo illusioni, speranze vane ed accordi mancati, dopo anni di conflitti, atrocità e cessate-il-fuoco sempre provvisori e sempre fragili, con il nuovo governo della Lega Nazionale per la Democrazia, segnato dalla carismatica presenza della storica leader Aung San Suu Kyi, il tema della riconciliazione nazionale con le minoranze etniche torni in cima all’agenda politica, per individuare strade concrete per raggiungere una pace duratura. 

La conferenza tenutasi a Naypyitaw dal 1° al 4 settembre, ribattezzata «la Panglong del 21° secolo», pur non segnando la tregua generalizzata che alcuni osservatori auspicavano, rappresenta il momento in cui i partecipanti hanno accolto la volontà di impegnarsi per l’obiettivo della pace e di tracciar una road map verso un accodo omnicomprensivo. Costituisce, inoltre, il primo passo ufficiale in cui i rappresentanti delle minoranze etniche sono ufficialmente ammessi e riconosciuti dall’esecutivo come attori del dialogo politico

Il tutto sotto l’egida della Premio Nobel Aug San Su Kyi, vera regista dell’operazione, che nel suo intervento ha rimarcato: «La pace non è solo oggetto di discussione di una conferenza. Dobbiamo continuare a sforzarci per ottenere la pace e riunificare il paese, superando le differenze con il dialogo e la cooperazione». La leader ha invitando i presenti a buttarsi alle spalle le ferite del passato e a guardare al futuro con rinnovata speranza. Il processo di pace oggi in Birmania «gode di un ampio consenso pubblico», ha osservato, e questo è un elemento determinante. 

Una, però, è la conditio sine qua non perché la volontà di riconciliazione non naufraghi di nuovo: nei prossimi sei mesi – tempo necessario a tracciare la road map – «urge assicurare che i militari non lancino offensive nelle aree di conflitto. Molto dipende ancora dai militari: il governo dovrebbe garantire che non compiano abusi e rispettino la dignità di tutti», ha spiegato il vescovo Francis Daw Tang all’agenzia vaticana Fides. 

Questo sarà il reale banco di prova per il neonato governo civile della nuova Birmania democratica, uscita dalla dittatura militare: controllare le forze armate, accusate da molte organizzazioni non governative di commettere abusi, atrocità e crimini conto l’umanità sulle inermi popolazioni civili che si trovano nelle aree di conflitto. 

L’obiettivo è conciliare la pace con la giustizia, ha rimarcato il Cardinale Charles Maug Bo, invitato a tenere un intervento ufficiale alla conferenza di Naypyitaw. Il processo suggerito dalla Chiesa è fermare il conflitto, stabilire una pace duratura e garantire uguali diritti alle minoranze etniche, nel quadro di un sistema federale. Il tempo, secondo il cardinale, è maturo e l’opportunità è storica: «Per troppo tempo abbiamo vissuto in una atmosfera reciproca di odio. Ora è il momento di cambiare rotta. La Chiesa collaborerà con tutti i mezzi a disposizione per costruire una nazione pacifica e prospera». 

Nel 1947 fu il generale Aung San, padre di Suu Kyi e leader dell’indipendenza birmana a lanciare la conferenza di Panglong, tentando una mediazione con i gruppi etnici, ma fu assassinato pochi mesi più tardi. Oggi quella intuizione può finalmente diventare realtà.  

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