Sono passati poco più di due anni dal primo viaggio del primo Papa americano in terra asiatica. Allora, la visita apostolica di Papa Francesco in Corea del Sud (14-18 agosto 2014) fu raccontata in resoconti e commenti dai toni spesso entusiasti. C’era chi teorizzava una “priorità asiatica” del pontificato bergogliano, e già prefigurava un dirompente “effetto Bergoglio” perfino sui processi di crescita della Chiesa di Corea e delle altre comunità cattoliche dell’Asia.
Trascorsi appena due anni da quella visita papale, i toni eccitati lasciano il campo a considerazioni più realiste sul presente, sul futuro e anche sul passato della cattolicità coreana. Le valutazioni di osservatori qualificati e operatori pastorali raccolte da Vatican Insider sono diverse e in qualche caso discordanti, ma concordano nello smarcarsi dagli stereotipi sugli “effetti taumaturgici” attribuiti da alcuni alle visite papali nella vita delle Chiese locali: «Il viaggio coreano di Papa Francesco – nota il gesuita Gabriel Byoung Young Je, Direttore dell’Istituto per la Cultura e l’educazione internazionale della Sogang University – ha acceso una fiammella nel cuore della Chiesa di Corea. Ma quel seme deve ancora diventare un fuoco vero e proprio. E questo non dipende dal Papa. Dipende anche da noi».
La visita di Papa Francesco, mentre si realizzava, ha suscitato emozione e toccato il cuore di tanta gente: «Già prima che lui arrivasse – ricorda Vincenzo Bordo, missionario ai margini di Seul da quasi 25 anni – si alimentavano grandi aspettative. Si diceva: adesso viene lui, e cambia tutto. È venuto, c’è stato entusiasmo, ma poi è andato via, e anche nella Chiesa è cambiato poco. Certo, ha lasciato un segno che non si può ignorare. Le sue parole continuano a rappresentare un termine di paragone, anche per la prassi ecclesiale. Ma le cose non cambiano per magia o in maniera meccanica».
Il Vescovo Peter Kang U-il Kang, da molti considerato un figlio spirituale del rimpianto cardinale Stephen Kim (1922-2009), delinea dati e dinamiche di una realtà pluriforme: «In molte diocesi, compresa la mia, nel tempo successivo alla visita papale si è registrato un aumento delle persone che si sono avvicinate alla Chiesa e all’annuncio del Vangelo. Tante persone non cristiane sono rimaste stupite dalla sua personalità così semplice, e si è anche registrato un aumento dei catecumeni che chiedevano il battesimo, che in molte diocesi è stato pari al 50 per cento, rispetto alle medie precedenti. All’interno della Chiesa, le sue parole sono state apprezzate da coloro che avvertono l’urgenza di un rinnovamento spirituale della vita ecclesiale. Mentre quelli che non hanno questa sensibilità, non riescono neanche a cogliere il nucleo del messaggio di Papa Francesco. E dimenticano in fretta quello che ha detto».
Resistenze e spiazzamenti
A giudizio di settori ecclesiali coreani più critici, le sollecitazioni di Papa Francesco non trovano risonanze adeguate in settori influenti della Chiesa locale. «Il Papa chiede a tutti di far parte di una Chiesa povera e per i poveri – rimarca il teologo Joseph Kim, direttore del website d’informazione ecclesiale Catholicpress – ma nella realtà ecclesiale coreana c’è chi non prova nessun interesse per questo messaggio. La Chiesa di qui in molti casi appare come una organizzazione religiosa per ricchi. Certi interventi del Papa non trovano spazio adeguato, soprattutto quando segnala i comportamenti non evangelici dei sacerdoti e dei vescovi, o denuncia il clericalismo». Gruppi ecclesiali minoritari ma invasivi, ancora arruolati a tempo pieno nella polemica anti-comunista retaggio del conflitto con la Corea del Nord, sembrano mal sopportare anche le considerazioni critiche rivolte da Papa Francesco al sistema di sviluppo globale e all’ideologia neo-liberista. «Secondo questi settori – spiega padre Timothy Lee Eun-hyung, segretario del Comitato episcopale per la riconciliazione del popolo coreano – la Chiesa non deve occuparsi di questioni sociali. Ogni intervento di segno sociale viene attaccato come politicizzazione della Chiesa. E interpretano con lo stesso pregiudizio anche tante parole di Papa Bergoglio».
Il cattolicesimo come status symbol
Con delicatezza e senza plateali fustigazioni, la visita di Papa Francesco ha messo in discussione attitudini e riflessi condizionati della realtà ecclesiale coreana già registrati da tempo. Come la tendenza a “programmare” la crescita percentuale dei cattolici con criteri da marketing aziendale. O il rischio di percepire e vivere l’appartenenza alla Chiesa cattolica come status symbol religioso delle classi medio-alte. Fino al pericolo di un modello ecclesiale “aziendale”, e a un’immagine di Chiesa concepita come lobby vigorosa, che pone tutta la fiducia non nel Signore, ma nell’efficienza della sua organizzazione strutturata. La stessa ossessione per la costruzione di nuove mega-chiese, forte soprattutto tra le comunità cristiane evangeliche e pentecostali, contagia in alcuni casi anche diocesi e settori cattolici, polarizzando la situazione: «Per costruire nuove chiese – sottolinea Joseph Kim – servono i ricchi, che possono fare belle offerte. Così le chiese le costruiscono i ricchi, e i poveri non si sentono a casa loro. Anzi, si sentono esclusi, o giudicati in base al censo, e se ne vanno». Gli fa eco Lazzaro You Heung Sik, vescovo di Daejeon, dove da dicembre scorso è iniziato un cammino sinodale diocesano programmato per tre anni: «I catecumeni che chiedono il battesimo appartengono tutti alla classe media. I poveri sono pochi. Questo ci pone domande». In un Paese ormai sviluppato e plasmato sui modelli della competizione economica, anche negli ambienti cristiani trova spazio la mentalità che vede nel benessere economico un segno della predilezione di Dio, e nella povertà una punizione divina.
Paragoni truccati
Gli effetti di lungo corso della visita di Papa Francesco nel vissuto del cattolicesimo coreano vengono da alcuni già misurati con le narrazioni epiche sui cambiamenti descritti dopo i viaggi coreani realizzati nel 1984 e nel 1989 da Giovanni Paolo II. Nel corso degli anni Ottanta, nella sola arcidiocesi di Seul triplicò il numero dei battezzati cattolici, raggiungendo quota 916mila. Ma gli analisti più avveduti evitano di porre quella progressione sensibile in relazione quasi meccanica di causa-effetto con le trasferte wojtyliane in Corea. «Quella crescita – ricorda il gesuita Gabriel Byoung – avvenne in un momento sociale e politico molto particolare. Era un tempo di cambiamento, con una grande richiesta di democrazia e di giustizia sociale, dopo gli anni del governo militare. Quella degli anni Ottanta era la generazione del baby boom. C’era instabilità, ma anche tante aspettative e tante speranze, con tanti giovani che cercavano il senso della vita. La Chiesa cattolica guadagnava stima e simpatia, perché era vicina al popolo e sosteneva le sue attese. E anche questo portò molti a avvicinarsi, fino a chiedere il battesimo». Adesso, concordano tutti, la congiuntura in cui è avvenuta la visita di Papa Francesco è tutt’altra. La società coreana non appare più carica di vibranti attese generazionali. La Chiesa cattolica continua a godere di stima diffusa, soprattutto in confronto alle comunità evangeliche e a quelle buddiste, che hanno avuto autorevoli rappresentanti travolti da scandali e malaffari. Ma il gradimento per l’immagine pubblica della compagine ecclesiale non diventa di per sé attrattiva esistenziale per l’annuncio evangelico. E lo sviluppo economico si accompagna con i processi di individualismo e secolarizzazione analoghi a quelli registrati in altre società avanzate.
I “Grandi Eventi” e la vita quotidiana
«Quando il popolo soffriva, al tempo delle repressioni militari – ricorda Vincenzo Bordo – la Chiesa stava con il popolo e soffriva con il popolo. Prima ancora, fino a metà degli anni Sessanta, c’era la fame, e la Chiesa aiutava tutti. In quei decenni si è registrato anche l’aumento delle conversioni, che continuano anche oggi. Ma adesso, la secolarizzazione galoppa. E anche se c’è ancora un aumento numerico, non si percepisce più lo slancio di fioritura che c’era un tempo». Inoltre, appare sempre più ozioso il vezzo da salotto clericale di attribuire alle visite papali effetti mirabili nella vita delle Chiese locali visitate. «Nella storia stessa della Chiesa coreana – fa notare il vescovo Kang -è chiaro fin dall’inizio che la Chiesa non nasce e non cresce per le idee degli ecclesiastici, le strategie pianificate o i grandi eventi. A portare in Corea l’annuncio del Vangelo furono piccoli gruppi di laici battezzati che si riunivano nelle case, pregavano e leggevano il Vangelo. Non c’erano missionari, non c’erano sacerdoti. Vivevano affidandosi alla grazia nel tessuto ordinario della vita quotidiana. E questo li custodì nella fede anche durante le persecuzioni, mentre continuavano a incontrarsi nelle case per pregare, leggere il Vangelo e studiare l’insegnamento della Chiesa. Quando è venuto in Corea, anche Papa Francesco ha suggerito che su quella strada possiamo camminare anche oggi: vivere il Vangelo nella vita quotidiana, nelle famiglie, nelle comunità, nelle parrocchie. Così può sprigionarsi anche una forza d’attrazione che è opera di Dio, e non dell’uomo».