La lunga teoria di persone in fila dietro la porta del suo ufficio non lo spaventa. Blindato nella sua residenza – date le minacce ricevute dai talebani – in un’area ricca di verde al centro di Lahore, il cattolico Khalil Thair Sindhu vive e lavora protetto da imponenti misure di sicurezza. Ma non per questo rinuncia a ricevere i cittadini, perlopiù cristiani, che vengono a esporgli problemi, necessità, richieste speciali. Ha pazienza, tenacia e capacità di ascolto.
Dopo una lunga carriera forense, Sindhu è al secondo mandato come ministro per i diritti umani e le minoranze nel governo della provincia del Punnjab, la più importante e vasta del Pakistan, centro della vita economica e politica della nazione. Il Punjab è anche la provincia che accoglie il maggior numero di cristiani (l’80% della intera popolazione cristiana del Pakistan), che vedono in Sindhu un punto di riferimento nelle istituzioni.
L’avvocato ha rinunciato alla delega sulla salute pubblica che pure gli era stata affidata. Per come intende il suo impegno politico – animato da dedizione totale, sull’esempio di Shahbaz Bhatti, compagno e amico ai tempi del college – Sindhu l’ha rimessa nelle mani del Primo ministro del Punjab Shabaz Sharif. E ha preferito dedicarsi anima e corpo a quanti gli presentano ora un inghippo burocratico, ora un episodio di discriminazione a scuola, ora il problema di una comunità intera. Mentre parla con Vatican Insider, il telefono squilla: a Faisalabad un banale litigio in strada tra un cristiano e un musulmano rischia di trasformarsi in violenza di massa. In men che non si dica, Sindhu chiama il capo della polizia locale e l’allarme rientra.
Ministro Sindhu, tra i tanti casi di cristiani in difficoltà, c’è quello di Asia Bibi: cosa può dire in merito?
«Posso dire che la fine del suo calvario è vicina. L’udienza davanti alla Corte Suprema sarà nel mese di ottobre. Sono convinto che sarà assolta. Da avvocato, ho studiato a fondo il caso e, visti gli elementi a favore di Asia, prevedo una assoluzione. Vorrò essere in tribunale per seguire direttamente l’udienza, in veste istituzionale di rappresentante del governo provinciale».
Vuole entrare nel merito della questione?
«Posso dire brevemente che le accuse sono chiaramente fabbricate. Le prove in mano all’accusa sono insufficienti. In primis l’accusatore principale, l’imam che ha sporto denuncia, non era presente al momento della presunta blasfemia. Inoltre c’è un ritardo di cinque giorni tra l’episodio accaduto e la presentazione della denuncia alla polizia, il che contraddice uno dei principi-cardine della giustizia penale. Questo avvalora l’ipotesi della cospirazione. Le pressioni degli estremisti islamici hanno orientato la condanna. Faremo il possibile per salvare Asia. Prego ogni giorno il rosario per lei: anche Dio ci aiuterà».
Le vittime innocenti della legge di blasfemia sono tante: cosa si può fare?
«Ne sono ben cosciente. Nella mia carriera di avvocato ho difeso e fatto assolvere 37 cristiani accusati falsamente di blasfemia. E molte vittime innocenti sono anche musulmane. Fermare gli abusi della legge è un primo passo su cui ci stiamo impegnando. Anche la Commissione per i diritti umani del Senato di recente ha avviato un iter di consultazioni con questo obiettivo. Sulla blasfemia dico: dato che parlare di “cambiamento” della legge è impossibile, si può pensare a una “aggiunta” a livello procedurale. Ad esempio: se si appura una falsa accusa, l’accusatore avrà la stessa punizione del potenziale accusato. Questo scoraggerà gli abusi. Oppure affidiamo l’esame dei casi a un Sovrintendente di polizia, non a un semplice agente».
Come giudica dal suo punto di vista la condizione dei cristiani e delle minoranze religiose in Pakistan?
«Nella vita delle minoranze religiose vi sono due ordini di problemi. Si può parlare di “discriminazione sociale” e di “discriminazione istituzionale” o “costituzionale”. Nella mentalità della gente comune i cristiani o gli indù sono considerati cittadini “di serie B” o inferiori, eredità delle vecchia tradizione castale, a cui si unisce il motivo di fede. Con il dialogo e l’opera di sensibilizzazione della coscienze, si può contrastare la discriminazione sociale. Nel secondo caso, il processo è più arduo. Ci sono leggi, articoli della Costituzione, regolamenti pubblici apertamente discriminatori. Dall’indipendenza del Pakistan a oggi la Costituzione è cambiata in peggio, dopo tante modifiche subite. Abbiamo una grande responsabilità nell’operare su entrambi i fronti».
Quali risultati ha conseguito grazie alla sua azione politica?
«Abbiamo lavorato su diversi fronti, cercando di migliorare la vita delle minoranze religiose. Anni fa i lavori di pulizia delle strade o i lavori domestici erano riservati ai non-musulmani, e questo regolamento è stato abolito. E’ recente il provvedimento di riconoscimento statale del matrimonio con il rito indù. Nelle scuole pubbliche, abbiamo ottenuto che i punti in pagella ottenuti dagli studenti musulmani in materia di religione islamica non facciano media, altrimenti gli studenti non musulmani erano penalizzati in partenza. Abbiamo perfezionato il provvedimento che riserva la quota del 5% dei posti di lavoro pubblici alle minoranze, approvato grazie a Shahbaz Bhatti: prima, in mancanza di concorrenti non musulmani, quei posti potevano essere occupati dai musulmani; ora invece sono unicamente riservati alle minoranze religiose».
Qual è la strada per migliorare, a lungo termine, la situazione delle minoranze?
«Politici, attivisti, il clero, la società civile devono unirsi in uno sforzo comune. Bisogna recuperare quello spirito missionario delle origini che animò, ad esempio, i padri domenicani e francescani nel donarsi alla povera gente per garantire istruzione, dignità, sviluppo. Bisogna dare ai giovani opportunità di procedere negli studi e formare leader che formino altri leader, in un circolo virtuoso».