Segnali di pace con musulmani e comunisti. Ancora ostilità verso la Chiesa cattolica. Il nuovo presidente delle Filippine Rodrigo Duterte non sembra mutare, per ora, la diffidenza di fondo mostrata verso l’istituzione storicamente più autorevole della nazione. Non è superato quell’incidente diplomatico in cui i vescovi della nazione asiatica sono incorsi durante la campagna elettorale, quando – in un eccesso di esposizione politica – hanno apertamente sconsigliato di votare per Duterte, dipingendolo come «il diavolo» e paragonandolo perfino al genocidaro cambogiano Pol Pot.
Duterte sembra essersi legato al dito quell’atteggiamento avverso nei suoi confronti e continua a tenere a distanza la gerarchia cattolica che, d’altro canto, si è ritirata in un approccio decisamente più soft verso il potere costituito.
Ultimamente i vescovi hanno diffuso un appello contro la pena di morte e contro la campagna di esecuzioni extragiudiziali compiute dalla polizia sugli spacciatori di droga: un fenomeno che gli osservatori attribuiscono al clima di «pugno duro» contro il crimine avallato da Duterte. Ma, in linea generale, la Chiesa, nei mesi subito dopo le elezioni di maggio, ha scelto un approccio meno interventista, annunciando una «collaborazione vigile con il governo».
Sta di fatto che il presidente, nel suo primo discorso sullo stato della nazione, intervento programmatico del sessennio appena iniziato, ha spiazzato tutti proponendo la tregua ai ribelli comunisti e poi avviando veri e propri colloqui di pace, dopo uno stallo che durava da oltre cinque anni. Duterte, poi, non ha mancato occasione per offrire un «calumet della pace» ai gruppi indipendentisti islamici presenti nel Sud dell’arcipelago. Raccogliendo, anche su quel fronte, consensi e piena disponibilità ad avviare una nuova fase di negoziati.
Il capitolo del rapporto con i «rossi», accantonato dalla precedente amministrazione di Benigno Aquino jr, sembra il più agevole da archiviare. Iniziate il 22 agosto a Oslo, le sessioni di dialogo tra la delegazione del governo filippino e il «Fronte Democratico Nazionale» durano un settimana e mirano esplicitamente a porre fine a cinquant’anni di guerra a bassa intensità che, nel complesso, ha fatto 150mila vittime, tra combattenti e civili.
Il Fronte rappresenta le organizzazioni politiche (il Partito comunista delle Filippine) e quelle militanti (l’Esercito di liberazione del popolo), espressione di quella ribellione comunista che attraversa il paese fin dai tempi dell’indipendenza, nel secondo dopoguerra. Era nata, infatti, come reazione all’occupazione coloniale giapponese ma non aveva trovato soddisfazione alle sue istanze (sociali ma anche ideologiche) né con la fase repubblicana delle Filippine, tantomeno al tempo della dittatura di Ferdinando Marcos.
Oggi c’è la volontà di arrivare a un risultato concreto e i colloqui sono iniziati sotto i migliori auspici: da un lato la tregua unilaterale annunciata da Duterte è stata subito confermata dai guerriglieri; inoltre, in vista dell’avvio del negoziato, due importanti leader comunisti, Benito e Wilma Tiamzon, sono stati scarcerati e ammessi a partecipare ai colloqui di Oslo, accanto ad altri leader comunisti. Segnale politico, questo, molto chiaro.
In un quadro incoraggiante, nel giorno di apertura, i negoziatori hanno annunciato con ottimismo una «road map» che condurrà a un accordo omnicomprensivo entro un anno. I passi da compiere sono la conferma degli accordi firmati negli anni scorsi, con il cessate-il-fuoco a tempo indeterminato e l’amnistia per oltre 500 prigionieri politici detenuti. In agenda vi è poi il decisivo abbandono della lotta armata e la discussione di riforme socio-economiche.
E mentre ignora gli appelli dell’Onu sulle violazioni dei diritti umani, per le crude statistiche di 900 presunti spacciatori di droga uccisi in tre mesi di campagna di giustizia sommaria (a cui si aggiungono oltre 4000 arresti), Duterte tira dritto per la sua strada. Una strada che contempla anche la pace a Mindanao, nelle Filippine del Sud, area da decenni in preda alla ribellione di matrice islamica, promossa da gruppi come il Fronte moro di liberazione nazionale e il Fronte islamico di liberazione nazionale. A loro il presidente ha promesso una accordo entro tre anni, dicendosi pronto a negoziare un modello di stato federale.
Sulla stabilità e riconciliazione a Mindanao anche la Chiesa plaude: il cardinale Orlando Quevedo, arcivescovo di Davao, città dove Duterte è stato per 22 anni sindaco, lo ha invitato considerare la Chiesa «come una forza positiva, partner per lo sviluppo nazionale anche nel processo di pace». Ma chissà se il presidente-sceriffo vorrà ascoltarlo.