separateurCreated with Sketch.

APAC, la vita cambiata di Daniel nelle carceri del Brasile

whatsappfacebooktwitter-xemailnative
Vatican Insider - pubblicato il 24/08/16
whatsappfacebooktwitter-xemailnative

Una famiglia disastrata – il padre che abbandona la moglie con sei figli, la donna che cade in depressione – e un’esperienza precoce fatta di furti al supermercato. Poi il salto nella criminalità con l’appartenenza a una gang di strada, un fratello ammazzato dai rivali che non avevano trovato lui a casa, una spirale di violenza infinita. Guardi il volto bambino di Daniel Luiz da Silva, oggi quarantenne, uomo libero, sposato, padre di tre figli, e ti imbatti nella debolezza onnipotente della misericordia e del perdono. Daniel è un ex carcerato che ha trascorso qualche anno in un centro penitenziario a bassa vigilanza, autogestito dagli stessi detenuti resi responsabili del recupero l’uno dell’altro. La sua esperienza ha reso ancora una volta concretezza il titolo del Meeting di Rimini, «Tu sei un bene per me». Daniel è intervenuto all’incontro «Dall’amore nessuno fugge. APAC: in Brasile un carcere senza carcerieri».

Negli anni ’70 un gruppo di cristiani coinvolti nelle attività della pastorale carceraria di San Paolo iniziò a trascorrere del tempo con alcuni detenuti del carcere di São José dos Campos. All’inizio la loro preoccupazione era solo quella di accompagnare i condannati nella situazione drammatica in cui si trovavano, dovuta alle condizioni terribili di sovraffollamento e a un trattamento disumano e violento. Da quell’impegno iniziale nacque un gruppo di volontari cristiani guidati dall’avvocato Mario Ottoboni; il gruppo decise di chiamarsi Amando o Próximo Amarás a Cristo (Amando il Prossimo Amerai Cristo).

È nata così la prima APAC. Quell’esperienza avrebbe cambiato per sempre le loro vite insieme a quelle di migliaia di carcerati del Brasile. Nel 1974 quel gruppo di volontari decise di compiere un ulteriore passo fondando l’Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati – APAC, un’associazione della società civile che collabora strettamente con l’amministrazione penitenziaria. Per la storia dell’APAC fu decisiva la richiesta che un giudice fece all’associazione: quella di gestire un padiglione di detenuti prima nel carcere di Humaita (São José dos
Campos), poi in quello di Itaúna, a Minas Gerais. Richieste che innescarono una continua crescita dell’esperienza APAC.

Oggi in Brasile i centri APAC sono una cinquantina. Le condizioni indispensabili per aprirne uno sono il coinvolgimento diretto della comunità locale e dei magistrati. Per entrarvi il detenuto deve essere condannato in via definitiva, deve aver fatto un periodo di detenzione nel carcere tradizionale (sempre più affollato in Brasile come in tanti altri Paesi), deve aver fatto richiesta di entrare in un’APAC. La vita in queste carceri senza carcerieri né armi, dove i colori predominanti sono il bianco e l’azzurro che richiama il cielo, è scandita da ferree regole: sveglia, preghiera, lavoro.

«I condannati generalmente non provano sensi di colpa – spiega Valdeci Antonio Ferreira, direttore generale dell’associazione che coordina le APAC – perché dicono: io ho rubato, ma in questo paese tutti rubano! Io non vendevo droga, erano gli altri che la compravano! Io non ho stuprato una donna, è stata lei a provocarmi! Per questo grazie al lavoro dei volontari e all’accompagnamento degli altri detenuti in fase di recupero cerchiamo di mettere in atto la “terapia della realtà”: ognuno deve essere messo di fronte al male che ha fatto, agli errori che ha commesso». Non appena questo avviene, ha continuato Ferreira, bisogna però immediatamente evitare che la presa di coscienza per il male commesso diventi un macigno che schiaccia: «Dobbiamo separare l’uomo dal suo errore, dal suo peccato, dal suo reato. Ridargli speranza di poter cambiare».

Tra i racconti che Valdeci Antonio Ferreira ha proposto alla folta platea del Meeting c’è quello di un uomo che aveva ucciso un altro uomo durante una rapina. Messo di fronte alla realtà del suo delitto, sembrava non darsi pace: «Come farò a riparare a ciò che ho commesso? Come posso ridare la vita?». «Un giorno nell’APAC si è presentata una donna con un fratello in dialisi che rischiava la vita se non avesse trovato un rene disponibile per un trapianto. In sei detenuti si sono offerti di donarglielo. Ma soltanto quello dell’uomo che aveva ucciso nella rapina è risultato compatibile. Dopo l’operazione lui ha continuato a mostrare a tutti la sua cicatrice dicendo: «Ho ucciso una vita umana, ma ora ne ho salvata un’altra».

Il titolo dell’incontro, «Dall’amore nessuno fugge», sono le parole di un altro detenuto APAC, oggi scomparso, José du Jisoys, che aveva commesso 56 omicidi ed era stato condannato a cinquant’anni di carcere. Dopo più di vent’anni nelle prigioni comuni, era evaso due volte. Nell’APAC, dove è stato accolto e dove ha concluso la sua vita, non mise mai piede fuori senza l’autorizzazione del magistrato.  A chi gli chiedeva «Sei evaso da tutte le prigioni, perché non fuggi anche da questa? Hai la chiave, lo puoi fare!», aveva risposto: «Dall’amore nessuno fugge!».

Amore, compassione e condivisione, insieme a uno sguardo che mai fa coincidere gli uomini e le donne con i loro errori, sono emersi anche dalla testimonianza di Luis Carlos Rezende e Santos, giudice di esecuzione penale del Tribunale di Giustizia di Minas Gerais, sostenitore dell’esperienza APAC. E da quella di Cledorvino Belini, Presidente di Sviluppo del Gruppo FCA per l’America Latina. Luis Carlos Rezende ha descritto, attraverso dati molto eloquenti, perché il modello APAC è stato assunto dallo Stato brasiliano: soltanto il dieci per cento dei detenuti di questo circuito alternativo hanno delle ricadute, contro una percentuale del 70 per cento per i detenuti delle carceri tradizionali.

Inoltre, il sistema APAC, a motivo dell’assenza di guardie carcerarie e armi, e dell’autogestione, costa meno di un terzo rispetto al sistema tradizionale. Le famiglie dei prigionieri vengono coinvolte – un detenuto può entrare in un’APAC se la famiglia risiede in quella zona – e raggiunte dai volontari: spesso hanno più bisogno di aiuto del loro parente carcerato. Ma il giudice, colpito dalle parole spesso ripetute da Papa Francesco, il quale ha detto da peccatore di non sentirsi migliore delle persone che stanno dietro le sbarre ogni volta che varca le porte di un carcere, ha raccontato come l’esperienza del perdono e della misericordia nella sua vita lo abbiano aiutato a guardare in modo diverso i carcerati, sulle cui vite è chiamato a giudicare.

Personale e sincero anche il racconto di Belini, manager Fiat, che ha raccontato come l’essersi personalmente coinvolto nel volontariato APAC ha reso la sua vita più bella e più felice. Il mondo delle imprese può aiutare in modo significativo l’esperienza del recupero dei detenuti, anche grazie a incontri di formazione che preparino a una professione. Nell’aiuto allo sviluppo del progetto, destinato a essere esportato e adattato ai sistemi carcerari di altri Paesi, contribuisce anche AVSI, l’Associazione Volontari per il Servizio Internazionale.

Il «metodo APAC» è stato reso carne e sangue nella vita cambiata di Daniel Luiz da Silva, che ha preso la parola per ultimo, non senza momenti di commozione. Il 90 per cento dei detenuti nelle carceri brasiliane provengono da famiglie disastrate. E questo è anche il caso di Daniel: suo padre ha abbandonato la moglie e sei figli e lui è stato cresciuto dalla nonna. «Il sistema sociale in cui vivevo non mi offriva alternative, sono entrato in una banda e ho compiuto ogni specie di crimine» ha raccontato. Una banda rivale cerca di ammazzarlo, ma non trovandolo a casa uccide suo fratello. È l’inizio di una guerra senza quartiere, fatta di violenza e vendette. A 19 anni si ritrova in carcere con una condanna a 37 anni e 27 altri processi pendenti. «Il giudice mi disse che non c’era speranza, che sarei morto dietro le sbarre, che ero un mostro e che non sarei dovuto nascere». Si trova a vivere in una cella di sei metri quadrati insieme a venti persone, con due soli rotoli di carta igienica e due saponette al mese, senza alcun contatto con il mondo esterno. «Ho chiesto ai miei compagni di uccidermi, non ce la facevo più. Non ho chiesto di nascere nella famiglia in cui sono nato, non era il mio sogno di diventare così».

Decisivo per Daniel è l’imbattersi in una Bibbia e nelle parole «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». «Pregai Dio. Gli dissi: se veramente esisti, cambia la mia vita! Ti prometto di dedicarmi a chi vive nelle carceri». Dopo qualche tempo Daniel viene trasferito in un’APAC. L’impatto non è facile: vi ritrova molti «nemici», appartenenti alla banda rivale e anche colui che aveva ucciso suo fratello. Incontra anche Valdeci Antonio Ferreira, il volontario che diventa per lui come un padre e che lo aiuta a riconciliarsi con se stesso e anche a incontrare quel padre che lo aveva abbandonato, riuscendo a perdonarlo. «Dissi allora – ha raccontato Daniel – che in quel momento uscivo dal crimine. Capii che mio padre non poteva darmi amore perché lui stesso non l’aveva ricevuto. Gli dissi che lo perdonavo». È grazie all’incontro con l’abbraccio della misericordia, con l’amore, la fiducia, con volti di persone che nonostante tutto ti dicono di credere in te, che la vita può cambiare. Come quella di Daniel, che non è fuggito dall’amore, e che piange come un bambino abbracciando Valdeci Antonio Ferreira, il giudice Luis Carlos e il manager Belini sul palco del Meeting.

 

Tags:
Top 10
See More