(Parte 1)
Sono in pochi a saperlo, ma, secondo autorevoli osservatori del calibro di Noam Chomsky o alcuni columnist occidentali, sono stati i Saharawi a ‘inventare’ la Primavera Araba. In un estremo tentativo di portare all’ordine del giorno della comunità internazionale la loro causa, tra l’ottobre e il novembre 2010, prima quindi della Rivoluzione dei Gelsomini, hanno piantato 80 tende a Gdeim Izik, nei pressi di El Aiun, capitale del Sahara occidentale, radunato oltre 20mila persone, e inscenato una manifestazione pacifica, inaugurando – oltre che il metodo del presidio pacifico – la stagione delle grandi rivolte che avrebbero dovuto portare maggiori diritti senza spargimento di sangue. Battezzarono la manifestazione ‘Accampamento della dignità’ e scrissero alle autorità marocchine che cercavano “pane e rispetto”. L’esercito marocchino disperse violentemente la manifestazione e – qualcuno, a posteriori, commenta ‘meglio così’ visto l’esito delle altre – non ci fu nessuna primavera saharawi.
Ma oggi, all’indomani della nomina di Brahim Gali a nuovo Segretario generale del Fronte Polisario e Presidente della Repubblica Araba Sahrawi Democratica, una nuova stagione potrebbe dischiudersi.
Il Sahara occidentale per metà del mondo – quello occidentale –, per Onu, Ue e Vaticano, non esiste. O meglio, è una regione meridionale del Marocco incastonata tra Mauritania e Oceano Atlantico. Per l’Unione Africana e quasi tutti gli Stati africani, così come per molti centro o sudamericani, invece, è la Repubblica araba saharawi democratica, uno Stato a tutti gli effetti, il cui popolo vive frazionato in tre parti: una grossa fetta, in un ampio territorio al di là del muro più lungo al mondo – 2.700 km, eretto dal Marocco negli anni ’80 e continuamente esteso – che per Rabat è l’ultima, propria propaggine a sud; un’altra, enorme, nei campi profughi di Tindouf, Algeria, in pieno deserto, dove le temperature d’estate raggiungono i 60° e d’inverno, di notte, scendono sotto i 5; un’ultima, davvero esigua, in una infima striscia di Sahara occidentale conquistata dall’esercito Saharawi, detta zona libera.
Tutto iniziò quando, sul declinare del franchismo, la Spagna, nel 1975, decise di ritirarsi da quello che, fino a quel punto, era noto al mondo come Sahara spagnolo. Pochi anni prima si era costituito il Fronte del Polisario (Fronte popolare per la liberazione del Saguia el Hamra e Rio de Oro), il quale, nel 1973, aveva chiesto e ottenuto di iscrivere nell’agenda ONU un’istanza di autodeterminazione e segnalare al mondo la volontà di indipendenza e autonomia di un popolo. Tra vuoto politico – Franco morirà a novembre del 1975 – e primo ritiro della Spagna (a cui aveva promesso di abbassare le pretese sulle sue enclave in territorio marocchino di Ceuta e Melilla), si inserisce il re del Marocco Hassan II che, sul finire del 1975, benedice la cosiddetta “marcia verde”: 350mila settlers marocchini vanno a stabilirsi nel Sahara occidentale dando inizio a quella che in breve diventerà l’ultima colonia d’Africa, a opera di uno Stato africano. La guerra saharawi-marocchina – 1975 – 1991 – oltre ai tanti morti, feriti, l’esodo di centinaia di migliaia di Saharawi in Algeria, avrà come esito l’accordo sulla celebrazione di un referendum sull’autodeterminazione, affrancato dall’ONU. Ma, trascorsi oltre 25 anni, di urne, non si scorge nemmeno l’ombra.
Della situazione attuale, le aspettative all’indomani della sua elezione, i timori per una ripresa del conflitto, i rapporti con la Santa Sede, parliamo con il neo presidente Brahim Gali.
Lei ha dichiarato la volontà di operare un ‘cambio qualitativo’ per rafforzare la struttura politica e organizzativa, allo scopo di raccogliere tutti i segmenti della società saharawi. Ci può dare qualche notizia sulle nuove linee che vorrete intraprendere?
Il popolo saharawi, la direzione del Fronte del Polisario e il Governo della Repubblica Saharawi, sono chiamati a realizzare un cambio qualitativo. Questa responsabilità congiunta e condivisa ci obbliga tutti a realizzare una revisione precisa di tutti i componenti della organizzazione politica, a rilevare i punti deboli e, da lì in poi, operare per stabilire una serie di piani che abbiano alla base questi valori, allo scopo di giungere a tale cambiamento. Mi preme ricordare che partiamo sempre dalle priorità determinate al 14° congresso del Fronte del Polisario, celebrato alla fine del 2015.
In un passaggio del suo discorso al Congresso Straordinario, lei parla di rafforzare l’esercito Popolare di Liberazione Saharawi, di diversificare i programmi di formazione e addestramento militare specializzato e di continuare a migliorarlo attraverso giovani energie, qualità, e tenerlo pronto a ogni evenienza. Si prevedono nuove forme di pressione e interventi militari così come peraltro una fetta della società saharawi chiede da tempo?
Nel 14° congresso è risultato chiaro che la lotta armata non è uno strumento di minaccia né di pressione politica. È, più semplicemente, un dovere nazionale di tutti i saharawi, allo stesso tempo è un diritto riconosciuto dalle risoluzioni dell ‘ONU per i popoli e i Paesi colonizzati. La decisione di mettersi a servizio di tutti i tentativi internazionali per giungere a una soluzione pacifica e giusta, che garantisca il diritto inalienabile del popolo saharawi alla autodeterminazione e l’indipendenza, non significa decretare la fine della guerra di liberazione nazionale: al contrario la sosterremo con tutti i mezzi legittimi visto che continuano le motivazioni, cioè l’occupazione militare illegale marocchina di parti del territorio della Repubblica saharawi. Le parole che lei cita, sono semplicemente la riaffermazione di una delle priorità del 14° Congresso: l’addestramento di una forza militare, potente e pronta a ogni eventualità – incluso il ritorno alla lotta armata – è una priorità strategica permanente che non si associa a una determinata circostanza.
Grande importanza è stata data agli sforzi diplomatici. Si intravedono nuove prospettive di aperture di rappresentanze in Stati occidentali, nella UE?
Insisto ancora una volta sulle priorità del 14° Congresso che, come già detto, inquadrano i nostri programmi, le strategie e le politiche per gli anni da qui a venire. Il fronte diplomático continuerà sempre a essere seguito con la dovuta importanza e tutte le energie possibili. Il tema di conseguire riconoscimenti della Repubblica Saharawi e di aprire nuove ambasciate e nuovi uffici del Polisario è una priorità permanente nel lavoro diplomatico saharawi in tutto il mondo, compreso all’ONU che, lo ricordo, riconosce il Fronte Polisario quale unico legittimo interlocutore del popolo saharawi (lo scorso 5 marzo, il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, assieme all’inviato Christopher Ross, ha visitato per la prima volta i campi profughi saharawi in Algeria e si è poi recato per una visita storica e inedita a Bir Lahlou, nei territori liberati. Nell’occasione ha espressamente parlato di “occupazione” da parte del Marocco, ndr.).
Quali sono i rapporti con la Santa Sede e come vede l’attività del Papa?
Noi siamo sempre pronti ad aprire trattative con il Vaticano, così come lo abbiamo fatto e continuiamo con molti Paesi del mondo. Con il Vaticano, manteniamo relazioni di amicizia e mutuo rispetto e siamo in costante contatto attraverso la nostra delegazione a Roma. L’attuale Papa, così come gli ultimi predecessori, concede sempre un’ospitalità speciale ai bambini saharawi che passano le vacanze estive in Italia. Ci sentiamo molto vicini a Papa Francesco e difendiamo fermamente gli stessi valori del Vaticano che mirano alla costruzione di un mondo di pace, giustizia e tolleranza. Contiamo sulla carta che può giocare il Papa nella difesa dei diritti legittimi del Popolo saharawi di vivere in libertà e pace in una propria patria libera e indipendente, così come tutti i popoli del mondo.