Al culmine di settimane segnate da violenti scontri settari e aggressioni, il patriarca Tawadros II lancia un grido di allarme e al Sisi lo invita al palazzo presidenzialedi Luca Attanasio
Sembra ormai certo che tra le mille questioni aperte e critiche in Egitto, ne esista una copta. La comunità cristiana, la cui presenza affonda radici millenarie – copto vuol dire egiziano – è una delle più diffuse dell’area con i suoi circa 10 milioni di fedeli (e moltissimi appartenenti alla diaspora) e più radicate nel contesto. Ma dallo scoppio delle «Primavere Arabe», vive in uno stato di tensione crescente che ha avuto il suo apice durante il periodo del governo Morsi. Nell’occhio del ciclone è soprattutto la zona di Minya (ma non è l’unica) dove tra il maggio e il luglio scorsi si sono verificate varie aggressioni che hanno portato alla morte di un uomo, al ferimento di molti altri e alla distruzione di case e proprietà appartenenti alla comunità copta. Il cliché è quello classico: si spargono voci infondate su presunti progetti di costruzioni massive di nuove chiese o di atti offensivi di cristiani nei confronti dell’islam (tra questi ci sarebbe anche una presunta relazione tra un copto e una musulmana nel villaggio di Al-Karm che ha condotto all’attacco di varie case e al pestaggio dell’anziana donna madre dell’uomo) e si dà il via alle violenze. La situazione, all’apice della tensione, ha condotto nelle scorse settimane a due clamorosi gesti.
A fine luglio, il patriarca Tawadros II ha annunciato la sospensione delle tradizionali catechesi che ogni mercoledì pomeriggio teneva al Cairo dai tempi della sua elezione (tranne che per una pausa di alcune settimane, sempre di protesta, all’indomani della deposizione dell’ex presidente Morsi e delle violenze anti-cristiane, nel 2013), come segno di reazione contro la nuova serie di aggressioni settarie avvenute in varie zone dell’Egitto.
In risposta, Abdel Fattah al Sisi – che il 21 luglio aveva lanciato un appello alla comprensione e alla fratellanza religiosa – ha convocato il papa copto nel palazzo presidenziale insieme a una delegazione composta da alcuni vescovi del Sinodo. In quell’occasione, il presidente ha ribadito che gli egiziani «sono tutti uguali nei loro diritti e nei loro doveri, in accordo con la Costituzione», ha lodato la calma e la saggezza con cui la comunità cristiana sta rispondendo alle violenze di cui è oggetto e voluto ribadire che non c’è alcuno spazio per chi tenta di sfruttare l’islam o qualsiasi religione per soffiare sul fuoco dell’estremismo.
I due gesti, in sequenza di giorni, sembrano aver per il momento placato le agitatissime acque. La Commissione per la Gestione della Crisi della Chiesa Copta ha cancellato la visita ufficiale pianificata di una folta delegazione a Minya che avrebbe in qualche modo rinfocolato gli odi, e ambienti vicini al patriarcato si sono detti rassicurati dalle parole del presidente. Ma sono in molti a restare scettici.
«La Chiesa – dice raggiunto al telefono da Vatican Insider Mina Fayek un, giornalista, blogger e attivista egiziano, membro della comunità copta – dai tempi di Morsi, è terrorizzata di ritornare sotto un governo a guida islamica estremista e, così come durante il patriarcato del predecessore di Tawadros, Shenouda III (che non ha mai fatto mancare il suo sostegno a Mubarak, anche in presenza di attacchi, e ha chiesto ai fedeli di non prendere parte alla Primavera Araba, ndr) ha tutto l’interesse a tenere buoni rapporti con il governo senza alzare mai troppo la voce. L’esempio più limpido è l’incontro tra il presidente e Tawadros di qualche giorno fa: secondo moltissimi media, i due non hanno minimamente sfiorato l’argomento aggressioni».
La strategia della Chiesa ufficiale e dei suoi elementi più rappresentativi, continua a essere improntata alla prudenza, come dimostrano l’incontro tra Presidente e Patriarca e la dichiarazione, tra le varie, dello scrittore egiziano copto Michel Fahmy che si è fortemente opposto alle manifestazioni inscenate la scorsa settimana davanti alla «Casa Bianca» da settori della diaspora copta per protestare contro le aggressioni. In una nota ha definito le dimostrazioni atti «di stupidità o di tradimento» compiuti da piccoli gruppi, sottolineando che solo lo Stato egiziano è in grado di proteggere i copti dalle violenze settarie.
«Ma non ha senso – riprende Fayek – parlare di questione copta. Faremmo meglio a scrivere di questione egiziana. Non possiamo isolare i problemi che stanno avendo i copti da quelli che sta avendo un Paese intero. E i giovani che spariscono, vengono torturati, uccisi? Il fatto che è impossibile opporsi minimamente al regime? Dalla salita al potere di al Sisi, abbiamo assistito a un’ondata di repressione senza precedenti. Non saremo mai in grado di risolvere la questione copta finché non sarà ristabilito un pieno stato di diritto in tutto il Paese, che includa ogni singolo cittadino».