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Perché sull’Islam ha ragione padre Dall’Oglio e non la Fallaci

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Valerio Evangelista - Aleteia - pubblicato il 29/07/16
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Tre anni fa veniva rapito il gesuita romano a Raqqa, in Siria. Una vita dedicata al dialogo, unica via per disinnescare la trappola dell’odio fondamentalista“La Chiesa ha rifiutato lo scontro di civiltà che accomunava Samuel Huntington e al Qaida. E questo, evidentemente, è diventata una colpa da espiare”. Così Andrea Riccardi commenta l’assassinio di Padre Jacques Hamel, in un articolo uscito sull’Espresso di questa settimana (“Cristiani mai in guerra”, a firma di Marco Damilano).

Il fondatore della Comunità di Sant’Egidio – cattolico, storico e profondo conoscitore dell’Islam – ricorda che nel 2016 si celebra il trentennale dell’incontro ecumenico di Assisi, e propone un ritorno a quello spirito. “Oggi la sfida è tornare a quella strategia. Non accettare la violenza. Sapere che c’è un’Islam che odia e un Islam che cerca l’amicizia e che sente l’onta di gesti che profanano la vita e un tempio dedicato al culto”.

Sono tante le storie di sacerdoti che hanno pagato a caro prezzo il proprio stile di vita fedele ai dettami del Vangelo.

“Il Vangelo propone una logica di speranza. La logica della carità in tutto e nonostante tutto. Ed è più forte della morte” – Padre Paolo, 2011

Come l’86enne Jacques Hamel, sgozzato pochi giorni fa durante una messa nella sua parrocchia in Normandia, come i giovanissimi sacerdoti iracheni Wasim Sabieh e Thaier Saad Abdal, morti nell’attentato che nel 2010 ha colpito la Cattedrale siro-cattolica di Baghdad, oppure come don Andrea Santoro, freddato in Turchia dalla pistola del 16enne Ouzhan Akdil. La lista sarebbe molto lunga.

E oggi, 29 luglio, non possiamo non ricordare Padre Paolo Dall’Oglio, rapito in Siria tre anni fa. Abuna Paolo si trovava a Raqqa per trattare la liberazione di un gruppo di ostaggi. Dal 29 luglio 2013 si sono perse le sue tracce, l’ipotesi più verosimile è che sia stato rapito da un gruppo di estremisti islamici vicino ad al Qaida.


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Una vita spesa per il dialogo

Negli anni ’80 il gesuita romano ha rifondato la comunità monastica cattolico-siriaca Mar Musa nel deserto a nord di Damasco, dove nel 1992 fonda la comunità ecumenica al-Khalil (in arabo «l’amico», con cui si indica il patriarca Abramo) che promuove il dialogo islamico-cristiano. Il suo trentennale attivismo per l’abbattimento dei muri di diffidenza reciproca e per la costruzione di ponti di dialogo, è stato il motivo per cui il regime siriano lo ha espulso dal Paese mediorientale, nel 2012.

Dal 2011 Padre Paolo, che ha speso gran parte della sua intensa vita insieme al popolo siriano, si è infatti impegnato a formulare – insieme ai suoi “concittadini adottivi” – proposte di soluzioni pacifiche alle questioni sollevate dalle rivolte sviluppatesi in Siria. Tra i punti proposti anche una transizione politica verso un’architettura istituzionale democratica e il raggiungimento del consenso delle diverse componenti sociali e delle varie sensibilità religiose che coabitano in Siria.

“Lei sa meglio di chiunque altro quanto il terrorismo islamico internazionale sia soprattutto uno dei molti canali di illegalità del traffico di droga, di armi, di organi, di esseri umani, di capitali e di materie prime”. Queste parole, scritte nel 2012 da Paolo Dall’Oglio in una lettera a Kofi Annan, sono costate al gesuita romano l’espulsione definitiva dalla Siria.

“Solo passando dall’islamofobia all’islamosofia”, scriveva Dall’Oglio su SiriaLibano nel 2012, “dall’odio alla saggezza, eviteremo l’afghanizzazione della Siria”. Islamosofia, ovvero conoscere quell’Islam che cerca l’amicizia di cui parla anche Andrea Riccardi.

Nel libroPaolo Dall’Oglio. L’uomo del dialogo” (Ed.Paoline, 2015), Guyonne de Montjou riporta la testimonianza di alcuni suoi incontri con Paolo al monastero di Mar Musa. In uno di questi, il gesuita romano ha spiegato – con la sua inconfondibile chiarezza – la passione nel cercare il confronto con l’altro:

“Io ovviamente annuncerò, fino al martirio, se necessario, la Buona Novella dell’amore di Gesù! Ma so che, di fronte a me, un musulmano annuncerà con la stessa intensità la Profezia coranica. L’unico mezzo per donare la propria vita per Gesù consiste nell’aiutare ognuno ad essere un pellegrino di verità, non limitarlo all’interno del suo contesto, valorizzare la sua esperienza di Dio… Il mondo ha bisogno di persone iniziate all’esperienza mistica. In modo collettivo e individuale, bisogna che ognuno senta nel proprio corpo e nel proprio cuore, grazie a maestri esperti, il tocco e il contatto di Dio”.

Sono passati tre anni di tesi, ipotesi e congetture sulla sua sorte. Mi sottraggo volentieri a queste disquisizioni, facendo mie le parole di Hind Aboud Kabawat, profonda amica di Padre Paolo, riportate da un articolo di Marta Serafini sul Corriere: “Se è morto è morto. Se è vivo allora tornerà indietro. Noi dobbiamo seguire i suoi principi. Amare gli altri, costruire ponti attraversando il confine per la pace e la riconciliazione. Erano queste le sue parole preferite”.

“Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” – Giovanni 15:13

Il carisma visionario di un uomo straordinario

“Paolo è stato sottovalutato”, ha dichiarato ad Aleteia Riccardo Cristiano, giornalista e storico vaticanista di Radio Rai. “Con noi comunicava sulla base del concetto di solidarietà nei confronti di popolazioni che rivendicavano libertà e dignità. Era un visionario, e come tale ha saputo identificare degli scenari prossimi e avvertirci di ciò che sarebbe potuto accadere. Noi non l’abbiamo compreso, perché – a differenza sua – non eravamo abituati a vivere e comunicare con i siriani. A loro, ai siriani, parlava sulla base del concetto di consapevolezza sociale”.

La radice dell’impegno di Padre Paolo non è infatti da ricercarsi nella volontà di affermazione di un gruppo politico o di una fazione religiosa, ma nella constatazione della crisi irrimediabile del modello di unità sociale calata dall’alto. “Paolo, e con lui tanti siriani, aveva compreso la crisi profonda di quello stato, che oserei paragonare allo stato napoleonico”, ha aggiunto Riccardo Cristiano. L’unica unità presentabile era dunque, per il sacerdote romano, non quella nata come espressione della volontà imprevedibile di un governo autoritario; ma quella ricostruita dal basso, valorizzando e non annullando le diversità.

In un intervista al giornalista siriano di ANA Press Rami Jarrah – tenutasi nella città turca di Gaziantep poco prima del rapimento ma riapparsa recentemente sul web – Paolo aveva affermato, con un sapore tragicamente profetico, che “se ciascuno di noi chiude la mente … noi tutti perderemmo il Paese e ciascuno perderebbe l’altro”. Ribadendo la necessità di pensare “a cosa fare per mettere il paese sulla strada della comprensione, della convivenza, della fratellanza, della democrazia matura e del superamento del regime tirannico“.

“La consapevolezza di essere un soggetto plurimo e di avere bisogno dell’altro per arricchire se stessi. È questo il concetto visionario che ha fatto innamorare i siriani, a prescindere dalla propria appartenenza religiosa, della figura di Paolo”, ha sottolineato il vaticanista di Radio Rai, responsabile dell’associazione Giornalisti amici di Padre Dall’Oglio. Ma questo doppio binario comunicativo è stato incompreso da entrambi i versanti, perché spesso limitati da un registro interpretativo squisitamente partigiano.

Il nemico dei terroristi è necessariamente chi parla di dialogo, che funge da minaccia esistenziale per il nichilismo, per l’ideologizzazione o per qualunque sia la fonte a cui vogliamo ricorrere per interpretare la motivazione degli assassini. Siamo portati a pensare che il dialogo sia sinonimo di buonismo, ma in realtà è l’unica arma capace di mettere in crisi questi gruppi. Ecco perché le espressioni, i simboli e gli interpreti del dialogo sono il bersaglio per antonomasia. La potenza di Paolo è data dalla sinergia dei due registri comunicativi – solidarietà e consapevolezza – che vanno di pari passo. Proprio come Bergoglio, anche lui sembra rivolgersi a bambini, con dolcezza e chiarezza, arrivando fino al cuore della questione”, ha concluso Riccardo Cristiano.

Nel libro “Collera e luce. Un prete nella rivoluzione siriana” (Emi, 2013) Padre Paolo ha descritto, con lucida lungimiranza, il destino dei cristiani di Siria nel caso in cui la comunità internazionale continuasse a ignorare la causa siriana:

Una cosa è il progetto di una Siria democratica, rivoluzionaria, pluralista, dove i cristiani avrebbero il loro posto. Altra cosa è il progetto politico islamista dove lo spazio dei cristiani sarebbe ristretto. E infine, altra cosa ancora è l’esplicita aggressione contro i cristiani da parte degli estremisti musulmani cosiddetti jihadisti e takfiriti.

E l’irresponsabilità mondiale prepara il terreno a questa terza ipotesi. (…) Il cristianesimo siriano diventerà residuale. Il che non significa che diverrà privo di senso, di importanza culturale e certamente di ruolo spirituale. Il disastro può essere più o meno grave, tutto dipenderà dalle scelte future sul piano nazionale o internazionale.

Tuttavia, a fronte di tale questione l’ottimismo deve restare di rigore; alla fine del conflitto, il tessuto sociale siriano si ricomporrà nella sua pluralità. Alcuni ritorneranno per ricostituire una certa normalità, il loro contesto vitale. Quanti avranno trovato una soluzione altrove, vi resteranno. Io conservo la speranza che le comunità cristiane residuali possano fiorire in una futura Siria islamica, capace di scegliere un coerente pluralismo inclusivo.

DallOglio

Paolo Dall’Oglio, 2008 (CNS/Catholic Press)

Paolo e Jacques, due operatori di pace

Una caratteristica, quella del dialogo e della costruzione di ponti, che costituisce un filo rosso che lega Padre Paolo Dall’Oglio al già menzionato Padre Jacques Hamel. Entrambi richiedevano a gran voce il recupero della nostra umanità. Sacerdote per oltre 50 anni, Jacques si era rifiutato di andare in pensione per poter continuare la sua missione, caratterizzata da un’intensa attività per favorire il dialogo con i musulmani. Amico fraterno dell’imam Mohammed Karabila, presidente del Consiglio regionale per il culto musulmano dell’Alta Normadia, dopo la strage di Charlie Hebdo era diventato membro di un comitato interconfessionale mirante alla convivenza interreligiosa.


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Non deve sorprendere dunque la dichiarazione di papa Francesco lungo la strada verso Cracovia, secondo cui “il mondo è in guerra, ma non di religione”, riferendosi alla palpabile tensione dei giorni nostri come a “una guerra per il dominio dei popoli”.

Ecco perché il dialogo promosso con coraggio e determinazione da figure quali Dall’Oglio o Hamel è davvero l’unica via per togliere le armi al fanatismo. Ed ecco perché il riflesso pavloviano di rifugiarsi nella teoria della guerra di civiltà (portata avanti, tra i tanti, dal precedentemente citato Samuel Huntington e da Oriana Fallaci) non fa altro che foraggiare la mentalità manichea e totalitaria che ispira il terrorismo. La strategia conseguente da questa teoria è perdente, e gli esiti catastrofici sono sotto gli occhi di tutti: in anni di guerre portate avanti in nome dell’inevitabile scontro di civiltà non è stato risolto quasi nulla. Ci si è anzi, forse inconsapevolmente e ingenuamente, assunto il ruolo di fornire alle varie formazioni del terrore il combustibile che consente la loro proliferazione: la paura del prossimo e il desiderio di chiudersi in se stessi. Non è possibile ascoltare le “lezioni di intolleranza” come se niente fosse successo, come se gli ultimi decenni non ci abbiano insegnato nulla.
All’indomani dell’uccisione di Padre Hamel, il Patriarca caldeo Louis Raphaël I Sako ha sostenuto che “fomentare l’indignazione sembra una blasfemia sacrilega, davanti al martirio di padre Jacques e di tutti gli altri”, e che chi strumentalizza la tragedia per portare avanti un’agenda politica di esclusione “rinnega e oltraggia padre Jacques più di quanto facciano gli ispiratori dei loro carnefici”.
E a proposito della sfida comunicativa a cui è chiamato a rispondere il mondo occidentale, Padre Paolo ha scritto delle parole illuminanti nel già citato “Collera e luce. Un prete nella rivoluzione siriana” (Emi, 2013):

Il fenomeno dell’islamismo radicale, semplicisticamente chiamato terrorismo, come al-Qaeda, è in gran parte, a mio giudizio, l’espressione di un profondo smarrimento. Nasce da un sentimento di persecuzione, di rifiuto, al tempo stesso interno al mondo musulmano e presente nella relazione tra il mondo musulmano e il potere occidentale.

Scegliendo di organizzarsi nella clandestinità, però, e presi da una febbre ideologica estremista nella quale pensano di detenere il monopolio della verità, sprofondano in un sistema criminale propriamente mafioso. Oggi sappiamo che esistono legami diretti tra la mafia internazionale e gruppi islamisti radicali e clandestini.

Per rispondere a questa sfida, il mondo occidentale dovrebbe tentare di divenire migliore, meno corrotto, maggiormente desideroso di tener conto della comunità musulmana nel pluralismo che le è proprio. Un mondo più inclusivo e più evolutivo, che non imponga ai musulmani di cambiare ma proponga loro di evolversi attraverso quegli scambi, quei dibattiti che possono instaurare una vera relazione e il convivere. Non si deve chiedere l’acculturazione mediante l’espropriazione dei loro valori, ma attraverso l’armonizzazione di evoluzioni plurali. Augurarsi un islam compatibile con la società occidentale richiede a questa società di essere più accogliente e più flessibile.

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